Medio Oriente
Gaza Marine, il giacimento dimenticato, che potrebbe dare l’indipendenza energetica ai palestinesi
Scoperto nel 2000 a circa 30–36 km al largo della Striscia, il giacimento Gaza Marine rappresenta una risorsa potenzialmente trasformativa. Le stime indicano riserve tra 28 e 32 miliardi di metri cubi (circa 1,1 trilioni di piedi cubi) di metano. Un volume non enorme se confrontato con i colossi regionali (Israeliani come Leviathan con oltre 22 Tcf), ma sufficiente a soddisfare i fabbisogni energetici palestinesi per circa 15 anni, con benefici economici stimati fino a 2,4 miliardi di dollari in royalties.
Il contesto politico ha bloccato per decenni lo sviluppo del campo. La licenza, concesso nel 1999 alla British Gas (BG), prevedeva il coinvolgimento del Palestine Investment Fund (PIF) e della Consolidated Contractors Company (CCC). Ma con il colpo di Hamas nel 2007 e nell’incertezza sul riconoscimento internazionale della sovranità palestinese, il progetto è stato congelato. Per anni, Israele ha rallentato ogni tentativo di sviluppo: la sua priorità strategica di auto-sufficienza energetica, grazie alla scoperta di giacimenti più grandi, ha reso Gaza Marine meno interessante.
Le cose sembrano però cambiare dal 2023. Israele ha autorizzato, con riserva di sicurezza, un accordo trilaterale con Egitto e Autorità Palestinese: il gas estratto verrebbe convogliato via una pipeline sottomarina in Sinai per essere liquefatto in Egitto, permettendo vendite a terzi e autoconsumo in Gaza e West Bank . Il costo stimato dello sviluppo si aggira tra 800 milioni e oltre un miliardo di dollari, con PIF e CCC proprietari di circa il 60 % delle quote post-BG/Shell .
In questo schema entra anche Eni, l’azienda energetica italiana. Israele ha assegnato licenze esplorative nell’area a Eni, tra gli altri, ma Eni ha chiarito di non aver ricevuto licenze su Gaza Marine, e di non aver avviato attività esplorative nella zona. La situazione, con il controllo integrale da parte di Israele che autorizza l’intervento di aziende straniere, pone interrogativi sulla responsabilità delle multinazionali in contesti politicamente fragili: legalità dei permessi, rispetto della sovranità palestinese e trasparenza dei ricavi.
Il potenziale economico è concreto: l’esperto Michael Barron parla di circa 4 miliardi di dollari totali stimati di ricavi, pari a 100 milioni annui per 15 anni. Non suffragherebbe il miracolo economico, ma sarebbe un passo verso l’indipendenza dai sussidi internazionali.
Tecnicamente, lo sviluppo è fattibile: i pozzi sono a soli 603 metri di profondità, facilitando il lavoro rispetto ai giacimenti più profondi della regione . Tuttavia, i rischi ambientali non vanno sottovalutati: un eventuale sversamento in mare metterebbe a rischio coste, infrastrutture idriche (es. impianti di desalinizzazione) e lanci di cooperazione regionale. Vivere a poca distanza da un “tesoro sottomarino” che potrebbe “accendere luce” su una terra off-grid è un pensiero che scuote: Gaza Marine è figlia di opportunità rimaste straniere alla politica. La questione del gas palestinese non è solo energetica: è una lente sulla disuguaglianza geopolitica e sul diritto a immaginarsi un’alternativa alla dipendenza. Il ruolo di Eni, o di qualsiasi azienda globale, dovrebbe essere quello di investire responsabilmente nella dignità dei popoli, non nella logica del profitto corto. Ma il caso dimostra come, spesso, i tempi politici annullano le opportunità economiche. La sfida è capire se si può ancora costruire un futuro prospero in un territorio martoriato: senza erigere barriere, ma con connessioni reali.
Mentre la guerra infuria e le condizioni umanitarie precipite, il progetto Gaza Marine resta appeso a un filo sottile. La crisi energetica è una costante: dal 7 ottobre 2023, il blocco e gli attacchi hanno ridotto la disponibilità di elettricità a Gaza del 90%, fermando ospedali, impianti di depurazione e desalinizzazione. Soprattutto nei mesi invernali, l’acqua potabile è precipitata a 4,74 litri pro capite al giorno, a fronte di un minimo di emergenza almeno triplo, con gravi implicazioni sanitarie e sociali .
L’Unione Europea ha evidenziato come, nonostante qualche miglioramento nei corridoi umanitari, la distribuzione dei soccorsi resti fortemente compromessa dalla mancanza di sicurezza sul terreno. Anche il taglio all’energia ha ostacolato l’acqua potabile, colpendo direttamente le strutture di desalinizzazione, con conseguenze enormi su vita e salute della popolazione .
In questo scenario, Gaza Marine acquista un valore strategico ancora maggiore: non solo come risorsa energetica, ma come possibile leva di stabilità economica. L’approvazione preliminare ai colloqui trilaterali (Egitto–PA–Israele) nel 2023 appare oggi una rarissima apertura politica, pur gestita sotto stretto controllo israeliano. Lo studio dell’esperto Michael Barron calcola che il giacimento potrebbe generare fino a 4 miliardi di dollari in royalties, garantendo alla PA circa 100 milioni di dollari all’anno per 15 anni. Se queste risorse fossero utilizzate per alimentare gli impianti fermi, gli ospedali, per garantire elettricità costante e acqua potabile, si tratterebbe di un cambio di paradigma: non più sussidi umanitari, ma autonomia materiale. Tuttavia, il contesto rimane profondamente fragile: la continua guerra, la sovranità incerta, e le ambiguità su cui poggia il consenso attuale rendono la realizzazione estremamente precaria .
Proposte reali? Creare una gestione multilaterale dell’energia, evitando conflittualità intrinseca: ad esempio, un coordinamento tra PA, Egitto, Israele e organismi internazionali per assicurare che proventi e infrastrutture siano destinati al bene comune. Nel breve termine, l’integrazione con le piccole reti solari esistenti (oltre 9.000 installazioni sul territorio) potrebbe garantire almeno il 25-40% di energia giornaliera, febbrile ma vitale .
In definitiva, Gaza Marine potrebbe rappresentare qualcosa di molto più vasto che un semplice giacimento: una piccola molla di cambiamento per un futuro che sembrava definitivamente compromesso. Restando neutri, la domanda è: ci sarà davvero un tempo in cui l’energia significherà dignità, non dominio?
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