Immagine di Gaza dall'alto, ripresa da un'aereo francese. Il genoccidio del popolo Gazawi dovrebbe essere giudicato ed eventualmente riconosciuto dalla Corte Penale Internazionale, che però Israele e USA non hanno mai riconosciuto

Medio Oriente

La parola Genocidio

3 Agosto 2025

Serve a qualcosa il dibattito sull’utilizzo della parola e l’appropriatezza del concetto di “genocidio” per descrivere l’orrore e la devastazione di Gaza? Serve ad avvicinare la fine del criminale massacro di Gaza, il rilascio degli ultimi scheletrici ostaggi mandati in mondovisione da Hamas, a migliorare solo di un briciolo il mondo sulle brutture del quale l’ostinazione senza pietà di Netanyahu ha aperto uno squarcio, amplificando il senso di orrore che sta diventando per molti abitudine, se mai è stato altro? La domanda è tutto sommato semplice, la risposta molto complicata, perché ragionevolmente varia a seconda del livello del discorso – etico, comunicativo, giuridico, emotivo, storico: piani non sempre facilmente distinguibili – e del luogo geografico e culturale nel quale esso avviene. Perché un conto è che se ne parli in Israele, e altro è che avvenga in Europa o negli Stati Uniti; una cosa è che se ne discuta in ambienti accademici, intellettuali o tra esperti di diritto internazionale che magari esercitano anche una funzione di giurisdizione internazionale, e altro è se la discussione infiamma i bar locali o virtuali del mondo, del nostro cosiddetto Occidente e del nostro paese in particolare.

In Israele, di recente, due importanti ONG israeliane hanno adottato, sulla base di ricerche documentate, la definizione di genocidio per quanto è successo, sta succedendo, e probabilmente, drammaticamente continuerà a succedere a Gaza. Una delle due, Btselem, è una delle realtà pacifiste più importanti, solide e autorevoli dello stato ebraico, e probabilmente la sua presa di posizione ha avuto un ruolo importante nel portare uno dei più noti scrittori del mondo, David Grossman, a parlare così a Francesca Caferri di Repubblica: “Voglio parlare come una persona che ha fatto quello che poteva per non arrivare a chiamare Israele come uno Stato Genocida. E ora, con immenso dolore e con il cuore spezzato, devo constatare che sta accadendo davanti ai miei occhi. Genocidio”. La rilevanza della presa di posizione di Btselem, per David Grossman, può forse essere testimoniata da una lettera di sostegno che lo scrittore aveva inviato all’associazione, ormai 13 anni fa.
All’interno di una società chiusa nella paura e nell’idea che solo la maggior forza militare e il suo sistematico utilizzo brutale sia l’unica speranza per il futuro, nella quale la lunga egemonia di Netanyahu ha via via consolidato l’irrisione di chi crede al diritto internazionale e ai diritti umani, e che dopo l’eccidio del 7 Ottobre del 2023 ha visto queste tendenze rafforzarsi sospinte dalla voglia di “essere accolti nella maggioranza” (lo dice splendidamente Grossmann), queste prese di posizione sono germi di speranza e resistenza che vanno ovviamente coltivati, apprezzati, difesi. Il coraggio di chiamare quanto fa il proprio paese a Gaza col nome più disonorevole tra i vari nomi disonorevoli che hanno i crimini contro l’umanità, certo non convincerà chi è convinto che sia falso, e che sia comunque la cosa giusta: ma forse aiuterà a spostare qualche coscienza, decine o centinaia di giusti, che magari troveranno il coraggio di parlare, di convincere altri. E magari così si salverà qualche vita, almeno questo. Non è molto, ma è quel che si può.

Tutto diverso diventa il discorso se usciamo da quel campo del sangue che è Gaza, e torniamo al nostro mondo democratico occidentale in brandelli. Qui, per semplificare, il dibattito è figlio di molte polarizzazioni più o meno antiche, più o meno ideologiche. Per semplificare potremmo dire che a un estremo del dibattito ci sono quanti considerano Israele tout-court, da sempre, senza troppe sottigliezze storiche e senza guardare all’evoluzione della vicenda, uno stato criminale, e dall’altro capo ci sono quelli che lo ritengono a prescindere uno stato perfettamente democratico, che ha la sola colpa di voler sopravvivere, e che se uccide decine di migliaia di persone lo fa perché non ha alternative di sopravvivenza, ma il peso morale di quelle morti è tutto sul conto di Hamas. È una semplificazione brutale, ma serve a circoscrivere i poli estremi e il campo di gioco, se di gioco si può parlare: le sfumature nel mezzo sono tante, ovviamente, ma la tendenza di questi tempi tristi a polarizzare tutto, rende abbastanza significativo il peso sul totale dell’opinione pubblica di questi estremismi contrapposti. E insomma, per chi pensa che Israele sia uno stato fondativamente illegittimo e criminale, i 60 mila morti di Gaza e la distruzione e la fame sono solo una conferma, che a volte scivola nel “ve l’avevamo detto, vi svegliate tardi”. Ovviamente, il massacro di Gaza e la pratica di colonizzazione illegale e violenta del West Bank sono, per questa visione, perfettamente coerenti e in continuità con tutta la storia d’Israele, e con la sua fondazione ritenuta radicalmente abusiva. Ma il problema più grosso, in una situazione come questa, sta dall’altro lato del campo. Di là, il meccanismo di negazione può assumere forme offensive, per i terzi che provano empatia e dolore, ma anche per i difensori di Israele che si dichiarerebbero capaci di distinguere il vero dal falso. Argomento principe di questi apologeti è che ogni storia che arriva da Gaza è esclusivamente figlia della propaganda di Hamas. Muoiono i palestinesi in coda per il cibo? Li uccide Hamas. I numeri dei morti? Li gonfia Hamas. Le ragioni del conflitto? Se Hamas si sciogliesse il conflitto finirebbe subito. Tutto senza crepe, in una metafisica della giustificazione che non vuole fare nessun conto – a tacere di molto altro – con ciò che Israele è diventato, sulla sua composizione sociale, sul suo conservatorismo millenarista e violento che ha progressivamente innervato le strade e i palazzi del potere. Ovviamente, di fronte a chi dice “Genocidio” le ipotesi sono due: o è antisemita da sempre, oppure, concessa la buona fede, crede alle menzogne di Hamas che avrebbero convinto perfino David Grossmann.
Questo, schematizzato e semplificato, non è invero neppure un dibattito sul genocidio, sulla precisione della categoria storica e politica: è infine il solito dibattito provinciale che legge e piega le tragedie degli altri attraverso le lenti che portano alla dichiarazione della propria identità. Non serve a nessuno, laggiù, ma forse guardato con questi occhi può aiutare qualcuno di noi a capire chi siamo, e a decidere cosa vogliamo essere. Magari, in Italia e nel mondo, prendere coscienza della tragedia liberandosi della polarizzazione, porterà più persone in piazza, più giornali e mezzi di comunicazione a raccontare per quel che si può quel che succede. E infine i governanti a prendere decisioni.

Il livello più rilevante del dibattito sul genocidio, naturalmente, è quello storico e giuridico. Si dice sempre, e non a torto, che la storia non si scrive mai mentre succede. Ma certo è vero che sempre di più la possibilità di raccogliere e accumulare dati in presa diretta, passandoli dentro a percorsi metodologici scientifici più consolidati che nei secoli scorsi, ha via via reso possibile una maggior storicizzazione pur con un minore distacco di tempo. La parola degli storici, la decisa e imponente presa di posizione di Omer Bertov, ad esempio, segna un prima e un dopo in questo dibattito. A chi contesta la tardività della scelta, si potrebbe rispondere che ogni genocidio viene riconosciuto come tale anche in base alla sua durata e alla massa di morti che genera. È tremendo, e non sminuisce la sofferenza di una sola persona, di una sola famiglia, ma come tutti i reati si definisce in base a criteri il più possibile oggettivi, e al di là delle questioni psicologiche e personali – richiamate e ammesse sia da Grossmann sia da Bertov – il tema dell’insistenza stragista del governo israeliano, che non ha temuto di passare anche per l’affamamento della popolazione, non può essere considerato irrilevante al fine di una definizione che è e resta essenzialmente giuridica. Già, per ultimo ci sarebbe appunto il diritto, la giustizia internazionale: che lasciamo alla fine, ma dovrebbe essere proprio l’inizio. Perché la parola Genocidio è stata concepita appunto essenzialmente come categoria giuridica, come il più grave tra i crimini tipizzati dal diritto penale internazionale. La Shoa è il prototipo del genocidio, il più organizzato e sistematizzato della storia, e molti di quanti difendono Israele dall’accusa sembrano non riuscire a capire che il fatto che Israele stia eventualmente commettendo un genocidio non significa affermare, dal punto di vista storico, che esso sia uguale alla Shoa. Ma insomma, questa è materia per gli storici.

Per i giuristi il tema sarebbe quello di poter processare Netanyahu, e poter capire quanto volontariamente e dolosamente lui e i suoi compagni di governo, e i capi dell’esercito, hanno scientemente accettato che la conseguenza delle loro scelte portasse alla morte massiva degli abitanti di Gaza. Foss’anche per combattere i terroristi, di una Hamas evidentemente ormai ridotta allo stremo per chiunque sia dotato di senso della realtà, ed evidentemente difficilmente offensiva per molti e molti anni, un tribunale vorrebbe poter giudicare quanto Netanyahu e i suoi compagni di viaggio all’inferno degli altri hanno accettato che diecimila o trentamila morti gazawi in più non erano poi un gran problema, nella speranza che un giorno si spalancassero le porte dell’Egitto e i sopravvissuti scappassero in un nuovo grande campo profughi nel Sinai. Genocidio? Pulizia Etnica? Entrambe le cose? Qualcosa d’altro ancora? Sarebbe bello che a pronunciarsi fosse un giudice terzo, una corte penale internazionale riconosciuta. Questa cosa, però, non succederà mai: e questo è limite vero e drammatico di questo dibattito, e la sua impotente fine.

 

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