Medio Oriente

La solidarietà simbolica non salva Gaza

4 Settembre 2025

La Striscia di Gaza, oggi più che mai, rappresenta il punto di convergenza tra la retorica internazionale e la realtà sul terreno. Mentre il mondo assiste a un flusso incessante di dichiarazioni, immagini e attivismo simbolico, la situazione a Gaza continua a deteriorarsi, evidenziando un divario crescente tra la comunicazione e l’azione concreta. Questo paradosso non è solo una questione di disallineamento tra parole e fatti, ma riflette una comprensione superficiale e spesso distorta delle dinamiche storiche, politiche e sociali che alimentano il conflitto.

Il conflitto israelo-palestinese non è una questione recente né una mera disputa territoriale; è il risultato di decenni di lotte, esilio, occupazione e resistenza. La causa palestinese è intrinsecamente legata alla costruzione di un’identità nazionale che affonda le radici nella storia del popolo palestinese, nelle sue tradizioni, nella sua cultura e nelle sue aspirazioni. Negare questa dimensione nazionale significa ignorare la realtà del conflitto e ridurre una lotta per l’autodeterminazione a una mera questione di diritti umani astratti.

Dal 2001, la percezione occidentale del Medio Oriente è stata dominata da interventi militari, destabilizzazioni e sostegno a milizie locali. In questo contesto, ogni forza militare della regione è stata spesso etichettata come “terrorista”, senza una comprensione adeguata delle complesse dinamiche locali. Questa visione semplificata ha influenzato le politiche internazionali, portando a alleanze e conflitti che hanno avuto ripercussioni dirette sulla situazione a Gaza. La narrativa dominante ha contribuito a creare un’immagine monolitica del conflitto, dove le sfumature e le complessità sono state oscurate da una retorica di “buoni” e “cattivi”.

All’interno del movimento pro-palestinese, molti attivisti provengono da ambienti progressisti che, per principio, rifiutano identità collettive e confini nazionali. Questa visione, entra in contrasto con la realtà del conflitto, che è fondamentalmente una questione nazionale. La negazione dell’identità nazionale palestinese rischia di ignorare le legittime aspirazioni del popolo palestinese a uno Stato sovrano e indipendente. Inoltre, l’attivismo simbolico, come le flottille umanitarie, pur avendo un forte impatto mediatico, spesso non affronta le cause strutturali del conflitto e non contribuisce a modificare i rapporti di forza sul terreno.

Le posizioni internazionali nei confronti del conflitto a Gaza sono variegate e spesso influenzate da considerazioni geopolitiche. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha espresso un sostegno incondizionato a Israele, definendo l’attacco di Hamas come “il peggior massacro di ebrei dalla Shoah”, senza considerare le cause profonde del conflitto. In Europa, le reazioni sono più sfumate: alcuni leader hanno criticato l’inerzia dell’Unione Europea, definendola una “mancanza morale e politica”. Tuttavia, le divisioni all’interno dell’UE, con Paesi contrari a sanzioni contro Israele, hanno impedito una risposta unitaria e incisiva.

La cosiddetta Sumud Flotilla for Gaza, sostenuta da attivisti occidentali e in parte cavalcata mediaticamente da figure come Greta Thunberg, appare più come un’operazione di immagine che come un reale contributo alla causa palestinese. Le “flottiglie della solidarietà” hanno una lunga storia: dal 2010 con la Mavi Marmara, culminata in uno scontro sanguinoso, a oggi. In nessun caso hanno cambiato le condizioni materiali della popolazione di Gaza o inciso sugli equilibri geopolitici. Sono gesti simbolici, che attirano l’attenzione dei media per qualche giorno, ma poi evaporano senza conseguenze concrete.

Il problema principale è che queste iniziative finiscono per trasformarsi in passerelle di celebrità e attivisti, più preoccupati della propria visibilità che dell’efficacia politica. Greta Thunberg, in particolare, sembra ormai pronta a inserirsi in qualunque battaglia di moda, senza offrire analisi o soluzioni concrete. La sua presenza non rafforza il movimento, ma lo banalizza: riduce questioni complesse di guerra, sicurezza e diplomazia a slogan facili e lacrimevoli.

Inoltre, tali gesti non tengono conto del rischio di strumentalizzazione da parte di Hamas o di altri attori politici, che possono sfruttare l’evento come propaganda senza offrire alcun beneficio alla popolazione civile. Mentre i gazawi restano intrappolati tra guerra e assedio, l’Occidente si illude di “fare la differenza” inviando barche simboliche. La realtà è che queste iniziative non fanno pressione reale né su Israele né sugli attori internazionali: sono puro attivismo performativo, utile solo a produrre fotografie e post sui social.

Il conflitto a Gaza richiede una risposta che vada oltre la retorica e l’attivismo simbolico. È necessario un impegno concreto da parte della comunità internazionale per promuovere una soluzione politica che rispetti i diritti e le aspirazioni del popolo palestinese. Ciò implica riconoscere la legittimità della causa nazionale palestinese, distinguere tra le diverse fazioni e movimenti nella regione e adottare politiche che favoriscano il dialogo e la riconciliazione.

La realtà quotidiana a Gaza è drammaticamente condizionata dalle conseguenze materiali del conflitto. Il blocco imposto da Israele e dall’Egitto limita l’accesso a beni essenziali, combustibile e materiali da costruzione, aggravando una crisi energetica che lascia interi quartieri senza elettricità per ore o giorni. Gli ospedali sono costantemente sovraccarichi: secondo l’UNRWA, il 70% delle strutture sanitarie funziona al di sopra della capacità, e mancano forniture fondamentali come antibiotici, anestetici e materiale chirurgico. Le famiglie vivono in condizioni di precarietà costante: case distrutte dai bombardamenti, risorse alimentari ridotte e difficoltà nel garantire istruzione regolare ai bambini, costretti spesso a studiare in edifici danneggiati o affollati. Per i più piccoli, il trauma è quotidiano: l’esposizione a esplosioni, il dolore per la perdita di familiari e la mancanza di spazi sicuri per giocare incidono profondamente sullo sviluppo psicologico e sulla percezione della normalità.

Questo contesto materiale si intreccia con una dimensione politica spesso fraintesa dall’attivismo internazionale. Molti sostenitori progressisti della causa palestinese, soprattutto in Occidente, pongono l’accento sui “diritti umani universali” e sulla solidarietà globale, ma tendono a ignorare il fatto che il conflitto a Gaza è anche una lotta nazionale, che implica confini, sovranità e autodeterminazione. L’attenzione esclusiva ai principi universali rischia di trascurare le esigenze concrete di costruzione di uno Stato palestinese e di consolidamento della leadership politica interna. In questo senso, il contrasto tra ideologia internazionale e realtà nazionale influenza il sostegno effettivo alla causa palestinese: le manifestazioni simboliche e le campagne mediatiche possono generare visibilità, ma non incidono sul potere politico reale e sulle dinamiche territoriali.

Nonostante queste difficoltà, esistono percorsi concreti per cambiare lo scenario. La mediazione regionale da parte di Egitto, Qatar e Giordania può facilitare tregue temporanee e negoziati più stabili. La pressione diplomatica internazionale, coordinata da ONU e paesi chiave, potrebbe contribuire a ridurre gradualmente il blocco e a garantire accesso a beni essenziali. Accordi tra Hamas e l’Autorità Palestinese, anche limitati, potrebbero migliorare l’amministrazione interna e la gestione dei servizi. Come sottolinea l’ONU in rapporti recenti, “il miglioramento delle condizioni materiali e la stabilizzazione politica sono prerequisiti indispensabili per qualsiasi progresso verso una pace duratura”. Anche interventi mirati e misurabili, se coordinati con efficacia, hanno il potenziale di trasformare la solidarietà internazionale in azione concreta, riducendo il divario tra retorica e realtà sul terreno.

Solo un impegno concreto e informato, che coniughi solidarietà e azione reale, può trasformare la narrazione sterile in un cambiamento tangibile per il popolo di Gaza. La pace durerà solo se si riconosce la legittima aspirazione di due Stati, uno palestinese e uno israeliano, reciprocamente riconosciuti.

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