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Medio Oriente

L’eterna zona grigia della guerra in medio oriente

di Mauro Montalbetti
30 Dicembre 2025

In merito alle recenti inchieste sulla rete illegale di Hamas in Italia, si prendono le distanze, in attesa di giudizi e dei processi, da quello che invece politicamente, dal mio punto di vista, è sempre stato chiaro: il sostegno e il proselitismo politico e finanziario alla causa palestinese ha sempre corso il rischio di andare a sostenere indirettamente anche le azioni armate. Ciò per le dinamiche che il conflitto ha progressivamente assunto nel corso dei decenni e per il coinvolgimento di soggetti di varia natura — dalle reti informali alle potenze regionali — che si sono affiancati nel sostegno alla lotta palestinese. Tutto questo indipendentemente dalla qualificazione giuridica o meno di Hamas come organizzazione terrorista.

È il risultato e la conseguenza di una precisa scelta di lotta politica. Una scelta di lotta politica armata, peraltro nata storicamente ben prima della realtà di Hamas di questi anni, dato che la stagione di attentati, sequestri e dirottamenti palestinesi è iniziata negli anni Settanta; i kamikaze contro i civili nelle città israeliane  negli anni Novanta, ed il mondo allora sapeva a malapena dove fosse Gaza.

Ma in tutto ciò, non c’entra ed è fuori discussione la buona fede di quanti, a milioni, sono scesi in piazza per protestare in questi anni contro la guerra a Gaza e le stragi commesse da Israele, e che oggi si sentono messi sotto accusa in maniera strumentale. Il piano di discussione è completamente un altro e ha a che fare con i meccanismi di sostegno, i sistemi di economia di guerra, di finanziamento delle parti, dei soggetti e dei gruppi armati in conflitto: modalità e meccanismi che sono sempre stati sottesi e hanno caratterizzato tutte le guerre contemporanee.

Nei decenni scorsi, nel visitare quei luoghi in Medio Oriente e sapendo dell’ingente flusso finanziario internazionale che arrivava a favore dei palestinesi, molti di noi (io per primo ) ci siamo sempre domandati — banalmente e senza velleità d’inchiesta — come venissero utilizzati certi fondi, visto il permanere nel tempo di situazioni precarie, non dignitose e croniche nei campi profughi palestinesi. In larga parte, nella migliore delle ipotesi, venivano usati per pagare stipendi pubblici, strutture e apparati politici, militari e di sicurezza, portando pochi benefici reali a sostegno dei bisogni della popolazione. Chi lavorava realmente a favore della popolazione erano e sono soprattutto le ONG e le organizzazioni umanitarie internazionali. Della corruzione delle autorità e istituzioni palestinesi si è sempre sentito raccontare da parte di tutti, sui media e sui social. Da anni.

A tal punto che ne ho tratto l’opinione e il giudizio personale (politico, non giudiziario) che la popolazione palestinese dei campi profughi venisse lasciata di proposito in quella situazione per fomentare il malcontento, utilizzabile anche come manovalanza terrorista se del caso. Cosa, peraltro, non difficile da ottenere, vista la contemporanea espansione degli insediamenti illegali israeliani, dell’occupazione militare umiliante e poi del muro di separazione: un’espansione mai interrottasi nemmeno con i governi laburisti e nella vigenza degli accordi di Oslo.

Come se tra le due fazioni oltranziste, israeliana e palestinese, si fosse stretto un mutuo patto non dichiarato per sabotare ogni tentativo di composizione del conflitto. Del resto, è noto che tra il 2012 e il 2023 il Qatar ha trasferito a Gaza circa 1,8 miliardi di dollari (fino a 30 milioni al mese) in sostanziale accordo con il governo Netanyahu, fautore di una strategia di sostegno di fatto ad Hamas  da sempre contrario, come la destra nazionalista israeliana, alla pacificazione e all’ipotesi dei due stati; una strategia dichiarata e volta a delegittimare e isolare l’Anp (il governo di Ramallah nei Territori) e allontanare la prospettiva della nascita di uno Stato palestinese. Questo è il contesto ambientale e politico in cui i vari soggetti si sono mossi negli anni.

I meccanismi spiegati nell’ordinanza dei magistrati italiani sembrano analoghi a quelli di raccolta fondi utilizzati dalle varie “fratellanze” islamiche per l’Afghanistan, la Siria e l’Iraq; non nascono oggi. È un sistema che opera in gran parte pubblicamente e non in modo occulto e che, a prescindere dalle finalità più o meno legali, ha sempre unito la solidarietà (ad esempio a Gaza, con la creazione da parte di Hamas di un sistema di welfare) all’appoggio alle cause politiche e militari di quei paesi in guerra. Sono due facce della stessa medaglia, così come il sempre denunciato isolamento e il blocco economico della Striscia — che motiva l’arrivo degli aiuti internazionali — non ha mai impedito alle milizie di avere l’agibilità, la logistica e le risorse finanziarie per dotarsi di armamenti e sistemi missilistici da usare contro Israele.

Chi sa e ha contezza di cosa sia la galassia islamista e jihadista radicale, che ha pressoché sostituito la laica Al Fatah nella lotta armata contro Israele, non può pertanto meravigliarsi di quello che sta emergendo. Anche se il sistema di protezione sociale di Hamas a Gaza non finanzia principalmente la lotta armata, è parte integrante di un sistema che contribuisce ampiamente a renderla possibile e sostenibile, creando un consenso e un’adesione indispensabili attorno ad esso. Un dato che, ancor prima e al di là di valutazioni giudiziarie, è una considerazione politica su cui sarebbe stato (ed è) necessario riflettere.

Le immani stragi degli ultimi anni, decine di migliaia di morti e una Gaza annientata, non possono inchiodare l’analisi politica al solo presente e alla reazione — anche rabbiosa, radicale e del tutto giustificata — contro i crimini del governo e dell’esercito israeliano. Nel dibattito pubblico spesso sembra invece che tutto sia nato il 7 ottobre 2023, mentre siamo dentro a un conflitto che dura ormai da ottant’anni. È tutto il sistema di economia di guerra, formale ma soprattutto informale, il suo complesso militare e civile, le sue reti nazionali e internazionali e le sue alleanze esplicite o sotterranee che andrebbero analizzate.

Ed è proprio la storia a insegnarci che ad ogni latitudine, dietro ogni conflitto, soprattutto quelli più laceranti, incancreniti e ormai secolari, al di là di slogan e parole d’ordine, ci sono sempre state derive settarie e soprattutto ampie zone grigie, trasversali e parassitarie tra entrambe le parti, che vivono in parallelo a un sistema legale ma che prosperano sullo stato di guerra e lavorano per alimentarlo e sostenerlo sine die, sabotando ogni sforzo di pace. Si è trattato di una sconfitta per tutti, di cui le macellerie degli ultimi anni — dalle stragi nei kibbutz a Gaza — rappresentano l’esito parossistico finale.

Il fatto che — se confermato nelle successive fasi processuali — aiuti finanziari possano essere arrivati direttamente alla struttura militare di Hamas usando come motivazione la solidarietà e la vicinanza a donne e bambini ridotti alla fame dal governo Netanyahu, è semmai un’aggravante, non un’attenuante come lasciano intendere invece le dichiarazioni di alcuni. E il dato ulteriore che in Italia in tanti non sappiano riconoscere certe dinamiche, non sappiano parlarne e non sappiano fare le distinzioni necessarie, è un indicatore del cortocircuito politico di lettura e narrazione che si è sviluppato in questi anni sulla guerra mediorientale.

Da più di vent’anni mi occupo anche professionalmente di cooperazione e politica internazionale e, rispetto a quella tragedia, ho sempre contrastato alcune letture e posizionamenti politici, distinguendo l’appoggio alle giuste rivendicazioni e aspirazioni all’indipendenza palestinese dal totale dissenso sulla giustificazione e comprensione, spesso manifestata da molti in Italia e non solo, verso le forme di lotta terroristica intraprese dai movimenti palestinesi, che ho sempre giudicato politicamente suicide e controproducenti.

Ricordo animate discussioni su questo punto sia all’interno della mia organizzazione che con altre associazioni di solidarietà internazionale; rivendico questa posizione allora e la sostengo ora più che mai e, purtroppo, la storia ci sta dando conferma. È sempre esistita una legittima e comprensibile propaganda di guerra, sia israeliana che palestinese; bisogna però essere accorti e non si può finire con il credere realmente alla propaganda propria o altrui. Queste derive sono cresciute dentro un clima politico e culturale alimentato da molti senza le dovute precauzioni, scegliendo una solidarietà emotiva e ideologica, mai accompagnata da verifiche serie. Da ultimo, si sono legittimati slogan e figure ambigue pur di non rompere l’allineamento con la piazza e i movimenti di protesta.

Eppure vi è ancora un altro mondo possibile, testimoniato e diffuso da realtà come Fondazione Gariwo o Neve Shalom Wahat al-Salam Italia. Nonostante impietosi venti contrari, in quei territori esistono da tempo (ben prima del 7 ottobre) coraggiose realtà binazionali, certo minoritarie — da Combatants for Peace a B’Tselem a Parents Circle Families Forum — che, pur consapevoli della dissimetria di potere e di forza tra le due parti, sanno che comunque non vi è alternativa al confronto e al dialogo. Anche in questi frangenti terribili, sanguinari e annichilenti, lavorano con coraggio, osteggiati dai più, per creare le precondizioni per riaprire un realistico processo di pace a partire dalla società.

Anziché correre continuamente il rischio di farsi strumentalizzare dai predicatori dell’odio, con omissioni e silenzi anche di fronte all’evidenza, in nome di un malinteso senso di solidarietà politica a una lotta di liberazione poi degenerata (e forse fatta degenerare di proposito), se dall’esterno — dall’Italia e dall’Europa — avessimo incoraggiato, sostenuto e finanziato con convinzione queste realtà, oggi avrebbero potuto essere più forti e forse la storia sarebbe stata un’altra.

Ma è una strada che, con coraggio, si può ancora percorrere.

 

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