Medio Oriente
Maryam, madre ideale delle future generazioni palestinesi
26 Agosto 2025
Maryam Abu Dagga aveva 33 anni, madre di un ragazzino di dodici. Era una reporter e giornalista freelance di Gaza per Associated Press. Ha scattato fotografie e fatto video raccontando lo sconforto e il dolore più immediato della gente palestinese, andando nelle zone più a rischio, pronta ad affrontare il pericolo pur di offrire testimonianze autentiche della catastrofe genocidaria ancora in corso. È stata uccisa, insieme ad altri suoi quattro colleghi durante uno degli ossessivi attacchi israeliani che ha colpito l’ospedale Nasser di Khan Younis, la sua città natale, in cui hanno perso la vita 20 persone.
La donna portava un nome tra i più dolci, Maryam, che ha in sé diversi significati, simboleggiando la correlazione armonica del mondo naturale. Derivato dalla parola araba “mariam”, che significa mare, questo nome oltre a riflettere l’ampiezza e la complessità del creato, ha avuto un ruolo di rilievo in diverse culture e religioni. L’associazione più nota è con la Vergine Maria, madre di Gesù Cristo, nel cristianesimo. Nella tradizione islamica, Maryam è conosciuta principalmente come la madre del profeta Īsā (Gesù). Una nota, questa, che ho aggiunto di proposito, per assecondare il senso di interazione, spesso ignorato, tra la cultura religiosa araba a quella occidentale, non esclusa la professione ebraica, dove Maryam diventa Myriam, sorella di Mosè e Aronne.
Colpisce molto la lettera della reporter indirizzata a suo figlio, una sorta di testamento morale per le future generazioni palestinesi. Una lettera che riporto in parte, qui, come segno di ossequio laico per un testo che esprime il sentimento più alto di una madre nei confronti della propria discendenza, fino a sfiorare la solenne semplicità di un appropriato passo biblico: «Ghaith, cuore e anima di tua madre, sei tu. Ti chiedo di non piangere per me, ma di pregare per me, così che io possa restare serena. Voglio che tu tenga alta la testa, che studi, che tu sia brillante e distinto e diventi un uomo che vale, capace di affrontare la vita, amore mio.»
Sono parole di una chiarezza straordinaria, che non ammettono speculazioni retoriche di sorta e che sembrano aprirci a una certezza: i sopravvissuti di Gaza e non altri sono vicini a essere considerati il “Popolo di Dio”; sono loro l’umanità da preservare, aiutare e proteggere dall’indegnità del mondo; e sono ancora loro che dovranno trovare la forza e la grandezza per perdonare quello che hanno sofferto, con la complicità della nostra nazione e di tante altre.
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