UE

Venti anni dopo le banlieues in fiamme l’Europa continua a latitare

24 Novembre 2025

Venti anni dopo, chi si ricorda delle banlieues parigine?

Allora molti (tra questi Alain Finkielkraut) dissero che la rabbia che popolava le notti inquiete e «illuminava» le strade era il risultato di un malinteso “Stato assistenziale” che aveva protetto i suoi disagiati, e di fronte alla crisi dello «Stato-provvidenza» pagava il prezzo della sua impossibilità di garantirli ancora. L’effetto non era che la risposta arrabbiata di chi aveva ritenuto che l’aiuto ricevuto fosse una “sine cura” per sempre.

Altri, invece, (André Glucksmann, p.e.) ritenevano che quella rabbia fosse la conseguenza di un Paese che non credeva già allora nell’espansione dell’Europa.

Forse nella rabbia notturna c’era tutto questo. Sicuramente c’erano dei territori perduti della Repubblica. Riconquistarli, già allora, non era solo l’effetto di un ristabilimento dell’ordine pubblico.

Significava riprendere in mano l’idea della città. Ovvero: 1) spazio che non sia solo per pochi; 2) che non punisce i ceti meno abbienti; 3) un’idea di pianificazione urbana che riscopre e riprende a fare edilizia popolare; 4) non tralascia di mettere in campo politiche del lavoro; 5) promuove cultura e la formazione; 6) propone azione nei confronti delle nuove povertà.

Per riassumere: pensare città come miglioramento della qualità della vita.

Le banlieues interrogavano sia una politica che non c’era, sia un’idea di cittadinanza europea che non era nei programmi di nessuno.

Da allora non è cambiato granché e l’Europa continua a non esserci. Il tema riguarda la cittadinanza, l’inclusione.

Pensare una cittadinanza significa affrontare la fine del modello di accoglienza fondato sul diritto di asilo e proporre una procedura diversa che vede al centro la questione della costruzione politica dell’Europa. In altre parole collegare il diritto d’asilo alla definizione di una cittadinanza europea che travalica il dato identitario della nazione.

È proprio qui che si colloca il nocciolo della crisi che le luci delle fiamme delle banlieues iscrivono nell’agenda politica dell’Europa che non c’è. Non c’è perché non c’è l’idea condivisa di una identità culturale dell’Europa.

Che cos’è oggi l’identità europea? Non potendosi surrogare in una moneta, per di più non comune a tutti i suoi paesi membri, deve concentrarsi in uno scenario culturale.

Pensare una cittadinanza, significa avere una visione della società che si intende costruire e del profilo culturale che essa deve assumere. Un profilo scrive Luigi Zoja (Il nostro tempo, Bollati Boringhieri) che non può non avere a fondamento che uno scaffale di classici, di autori e letture che nel tempo hanno costruito una sensibilità.

Progetto non nuovo e a cui, in piena seconda guerra mondiale Erich Auerbach aveva dato un volto (si veda il suo Mimesis, Einaudi).

L’osservazione e lo stimolo sono corretti, tanto più che Europa oggi si presenta – è ancora Zoja a fornire quest’immagine – come la torre di Pisa, pendente, instabile, senza una base solida in un tempo in cui il tema Europa è percepito con noia, al più con cautela. Uno sguardo che evoca non un progetto per domani, ma la tutela, come si fa con i «soggetti fragili», meglio «caduchi». Un «malato» che si tratta di curare per “mantenerlo in vita” non per prospettare una crescita, né, tanto meno, un futuro.

Ma uno scaffale di classici non vuol dire solo letture o la conferma della tradizione.

A lungo in questi mesi in Europa si è tornati in varie forme a discutere di una identità europea fondata sulle radici giudaico-cristiane del continente. Sono stati così richiamati a diverso titolo i passi delle Lettere di San Paolo sui diritti del lavoratore; la riflessione di San Tommaso sul diritto della persona; il richiamo alla funzione di codice di Diritto Internazionale svolta per secoli dagli articolati della legislazione canonica, direttamente derivante dal Diritto Romano. In questa veste ciò che viene denominato come “identità” significa “continuità” e “fondamento primo”.

Ma l’identità storica di un gruppo umano è esattamente l’opposto: una cultura e una identità culturale si mantengono nel tempo perché si contaminano, perché si ibridano, non perché risultano “incorruttibili” o “immobili”.

Soprattutto perché assumono i luoghi della frizione e i confini gli spazi in cui si consumano i conflitti come generativi di una identità culturale che va ripensata o che chiede di essere radicalmente riconsiderata. Tema su cui Milan Kundera nel 1967 e poi di nuovo nel 1983 invitava a rimodellare la mappa mentale dell’Europa (i due testi sono ora leggibili nel suo Un occidente prigioniero, Adelphi).

Perché questa affermazione non risulti una petizione di principio, occorrono due condizioni: 1) leggere la storia al di là delle battaglie affidandosi a una dimensione in cui la storia si incontra con la geografia umana e storica; 2) individuare una data “culturale” piuttosto che una riferita a un episodio preciso.

Noi oggi in Europa parliamo di dimensione dell’Europa grazie a tre fattori: 1) uno storico (Fernand Braudel); 2) un’ istituzione (l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales) al cui interno partecipano individui (sociologi, demografi, storici della cultura, storici dell’economia,…) dove contano non le provenienze culturali, linguistiche, politiche o religiose, ma le eccellenze e dove la babele di lingue, di storie individuali e collettive, ha segnato nel tempo la possibilità di pensare una storia degli europei anche oltre i confini dell’Europa; 3) un libro: La Mèditerranée, forse il testo che con maggior efficacia ha rappresentato un modo di scrivere l’Europa e di riflettere sull’identità europea come processo storico. Un testo al cui interno, appunto, contano i luoghi di scambio, la circolazione degli uomini e delle tecniche, la costruzione delle reti stradali, e la carta dei pellegrinaggi; dove si studiano le stazioni dei viaggi commerciali, le strade d’acqua e i reticoli fluviali; dove le montagne sono affrontate a partire dai valichi e dalle valli, ovvero sono interpretate come luoghi dell’incontro e delle connessioni e non come le barriere naturali di divisione.

Il 28 novembre 1985 Braudel moriva. Non è detto che questa debba essere una data fissa, ma potrebbe rappresentare, in occasione di un anniversario, la prima opportunità per riflettere sulle vie dell’identità europea al di là del vincolo nazionale. Un momento in cui la geografia riprende a farsi le domande che le sono proprie: né solo, né prevalentemente quelle della geopolitica.

Forse varrebbe la pena farci un pensiero.

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