Nostra Signora degli Intubati

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21 Marzo 2020

Gli animali malati, in natura, nei momenti davvero difficili, trovano un riparo raccolto, un buco nel terreno, un pertugio tra la legna, un’apertura d’albero e si nascondono, senza mangiare né muoversi, in attesa. Si isolano dai propri cospecifici, dal mondo ambiente ed entrano in uno stato di attonito intermezzo. Ascoltano il loro respiro, senza volerlo, fanno come i monaci zen (o essi fanno come loro). Ascoltano le cose, gli intervalli  tra un respiro e l’altro. Un momento via un momento: battere, levare, attesa senza intesa.

Nella passività senza scelta. Così dev’essere  per gli intubati quando riacquistano coscienza e si ritrovano dentro l’ incubo vigile del risveglio. E poi (no, non pian piano, ma d’un tratto e inaspettatamente) si trovano a contrarsi su qualcosa d’ invisibile, di trascurabile  in altri momenti e possono, secondo dopo secondo, rubando respiri al tempo, guadare il fiume che monta.

Quando uscito dall’operazione fui messo in  terapia sub-intensiva, ricordo che mi distraeva guardare in alto la televisione accesa, su di un programma televisivo che mai avrei pensato di guardare prima. Guardavo senza intendere, comprendere o capire.

Non è innanzitutto concentrazione, ma  piuttosto coercizione su di un qualsiasi punto, su qualunque piccola cosa, dettaglio, frammento di realtà,  pensiero, respiro, fermaglio di spazio, adombramento intenzionale, momento. Non c’è volontarietà in questo mettere tra parentesi il disperante fondo senza fondo in cui s’è piombati, l’inatteso e inesperito continente del malanno di cui prima neppure si sospettava. E’ che la natura – o l’istinto – ci rivela l’escamotage. E’ un mondo completamente diverso-inverso da quello normale e ha il proprio ritmo e decorso. Solo chi vi è passato, solo e da solo, saprà poi di non più temere le preoccupazioni quotidiane che angustia(va)no i sani, i normali, i non galeotti dal trauma. Ferita, scacco, dolore elementale. Interruzione e parto. Disequilibrio, ubriacatura senz’alcol, nausea, inchiodamento al «C’è».

Non sarà  morire (sarebbe la sperata evasione), ma immanenza. Avrà comportato – nell’intervallo agonico – la passione non assunta del per sé (Jankélévitch e Lévinas ne hanno parlato da qualche parte).

Si potrà poi (ma cosa conta adesso?) inaugurare un nuovo sguardo sulla vita, attraversato e saggiato davvero nel negativo. Si potrà poi (ma cosa conta adesso?), masturbarsi con le teodicee,  non essere più quelli di prima.

Si potrà, forse. Ma  senza che prima se ne possa raccontare con edificazione il dopo.

E adesso non si dà il dopo.

Il dolore non tollera filosofia. La sofferenza è estranea al concetto postumo, che infatti tende a rimuoverla. Essa ci inchioda all’istante che non passa e ci fa anelare la fine. Qualunque cessazione.  Ma anch’essa, esperienza dell’inesprimibile, avrà fatto parte di quel grumo di modo-finito-di sostanza che noi – tutti – senza eccezione  siamo. (Il buon senso dice cazzate).

Ubriacatevi di canti dal balcone, anche questo non basterà a far cessare il loro lottare per un respiro.

Adesso. Gli intubati soli.

[Piuttosto tacete, state dentro,  pregate o pensate. Cos’è il vostro disagio di non uscire di casa rispetto alla loro lotta per il respiro?]

 

 

 

 

TAG: coronavirus, Diario, dolore, sofferenza
CAT: Filosofia

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