Nel mio ministero pastorale, durante i corsi di Esercizi spirituali o nei colloqui di accompagnamento personale, le persone mi parlano spesso dei loro figli, soprattutto quando sono genitori di figli adolescenti. Al di là dell’aspetto paradossale per cui dovrei poter dire loro qualcosa su come educare i figli senza essere mai stato genitore, mi colpisce soprattutto l’ansia, del tutto comprensibile, che esprimono rispetto al futuro dei figli. Spesso infatti il cammino dei figli sembra sorprendente, non si capisce come siano diventati così (!), a volte sembrano irriconoscibili (ma rispetto a chi?), non sono esattamente come li avevano pensati.
Ecco, i figli sono l’immagine più eloquente di una vita che non possiamo controllare, ma anche di una vita che ha i suoi tempi e le sue stagioni, una vita che ci chiede di attendere con pazienza.
In questa sezione del Vangelo di Marco (cap.4), i racconti hanno tutti a che fare con il seme, cioè proprio con la vita: il seme che genera, il seme che a volte viene accolto a volte no, il seme che ha bisogno di tempo per portare frutto, ma anche un seme che viene accompagnato dalla terra indipendentemente dal lavoro dell’agricoltore, il seme che al suo inizio non farebbe proprio pensare alla grandezza di quello che può arrivare a produrre.
Sono tutte immagini della vita, di una vita che a volte può apparirci inutile e senza frutto, ma al contempo è una vita che ci supera e ci sorprende.
All’inizio del cap. 4, Marco descriveva il lavoro di un agricoltore folle che getta il seme anche laddove è evidente che non potrà portare frutto. È un gesto inutile come inutili sembrano tanti momenti della nostra vita. Quel seme è il linguaggio del seminatore, è il modo in cui esprime il suo amore per le cose. E non possiamo aspettare che le cose siano perfette per cominciare ad amarle. Anche il terreno imperfetto può essere riconosciuto e amato. Forse le spine e le rocce col tempo impareranno a portare frutto, chissà, ma intanto l’amore è un gesto inutile, un vuoto a perdere, una follia gratuita.
Nella seconda immagine, Marco descrive la vita che va avanti indipendentemente da noi, una vita che spesso non possiamo controllare, una vita che ci chiede la pazienza di aspettare, una vita che ha bisogno dei suoi tempi: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo,poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».
La vita ha i suoi tempi. Fin dal primo racconto della creazione, la Bibbia ci invitava a considerare l’ordine della cose, a non avere fretta, ma ad ascoltare i tempi. Anche il libro del Qoelet (Qo 3,1-8) ritornerà su questa pazienza necessaria davanti ai tempi della vita:
Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo
per ogni faccenda sotto il cielo.
C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante […].
Anche le relazioni sono vita, hanno bisogno di tempo: molto spesso la fretta di voler raccogliere il frutto di una relazione, brucia le radici.
Queste immagini di semina sono certamente usate da Marco come simbolo della predicazione, dell’annuncio: il seme è innanzitutto il seme della parola buona che i discepoli sono chiamati a gettare nel terreno dell’umanità. È anche vero però che l’annuncio della buona notizia avviene innanzitutto attraverso le relazioni quotidiane della vita.
L’ultima immagine di questo capitolo 4 di Marco è quella del piccolissimo granello di senape, è un’immagine che ha a che fare proprio con il poco che ci sembra di poter mettere in gioco nelle relazioni: il bene trova la propria strada per portare frutto, anche quando non vediamo come questo possa succedere. Il granellino di senape è effettivamente molto piccolo, ma è capace di insinuarsi nelle crepe, di entrare nelle fenditure delle rocce, proprio come la parola buona che entra nelle ferite dell’esistenza e le fa fiorire. Il granello di senape è capace di trasformare le ferite in alberi che possono dare riparo anche ad altri.
Ecco, la parola buona del Vangelo è vita che, con pazienza e discrezione, si insinua nelle pieghe dell’esistenza e la feconda. L’ansia con cui la nostra cultura ci spinge a cercare il risultato, la fretta che vogliamo imporre alle relazioni e ai processi di crescita, lo scoraggiamento davanti a quello che ci sembra banale e insignificante, impediscono alla vita di fiorire e ci condannano all’aridità.
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Nella foto di copertina, Vincent Van Gogh, La siesta (1980)
Testo
Leggersi dentro
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