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Geopolitica

Friday for Future Tra il ’68 e i ragazzi di Hong Kong

di Flavio Pasotti
29 Settembre 2019

Metti una serata a casa con un piatto di pasta, un calice leggero e un amico di quelli veri, intellettuale per natura e sociologo per studi, a ragionar di universo mondo con postilla sui giovani in piazza. E mentre la vostra mente vola al Friday for Future noi partiamo da Hong Kong, lontana e dimenticata per voi ma con ragazzi in piazza e la Cina maledettamente vicina, non a un tiro di schioppo ma ad una sgasata del diesel certamente Euro Zero dei cingolati del Zhōnggúo Rénmín Jiěfàngjūn, l’Esercito Popolare di Liberazione dove la parola “liberazione” Imre Nagy e Alexander Dubček se la ricordavano bene.
La grande differenza tra Hong Kong e il resto del mondo non sta solo nella differente potenza del conflitto (loro per la Libertà Hic et Nunc, nel resto del mondo per un futuro ma subito, cioè però per domani) quanto nello spirito diverso di giovani della stessa generazione.
A Hong Kong li riconosco come parte di me, del mio modo di ragionare in politica: essi hanno valori, una piattaforma, un programma, un metodo e un obbiettivo. Sono a tutti gli effetti figli di Machiavelli, della cultura della politica e si giocano nell’immediato vita e libertà. Loro rischiano sul serio di finire come Ian Palach, per chi se lo ricorda, e come molti giovani dell’oriente europeo schiacciati fisicamente dall’imperialismo comunista di Mosca. E sempre imperialismo comunista è quello cinese.
Friday for Future è invece una cosa profondamente diversa. Le generazioni che si sono succedute dal 1945 al 1967, poi dal 1980 ad oggi hanno vissuto nella logica della cooptazione con le generazioni precedenti, baby boomers per i quali la fiaccola kennediana passava di mano in mano tra padre e figlio senza soluzione di continuità. L’unico potente momento di discontinuità fu il 1968, generatore di mostri e di libertà dove per poco più di un decennio alla rivolta musicale si sostituì la rivolta politica e la rottura generazionale si dispiegò però con lo stesso metodo, valori-programmi-mezzi-obbiettivi, dei giovani di Hong Kong.  E, si badi, quella rottura del secolo scorso non fu sancita dalla contestazione dei giovani ma dalle reazioni di padri e madri, divisi alcuni a sostenere con giovanilistico entusiasmo o strumentalizzazione politica la rivoluzione dei figli e gli altri, dove non mancarono intellettuali quanto famiglie operaie e contadine, a non comprendere fino al reprimere o addirittura rompere la solidarietà familiare. È sempre la generazione precedente a dire che un qualcosa si è rotto, non quella che lo rompe.
Friday For Future ha un solo elemento in comune con quegli anni di rottura e cioè l’essere sancito dai medesimi comportamenti dei genitori, solo che i genitori oggi siamo noi eppure ugualmente vedo tristissimi giovanilismi della terza età, residuati ideologici di non si sa più nemmeno cosa, conditi dal pressapochismo della politica contemporanea che si scontrano con bacchettonismi magari ragionevoli, solidi, professorali, puntuali ma, vittime del manicheismo di quando stavano sulle barricate, incapaci di comprendere che un disagio c’è anche se ha una declinazione sorprendente e incomprensibile: incomprensibile perché non ha metodo, non indica strumenti, è intrisa sì di rabbia giovanile, di lecitissimo ribellismo ma non sembra avere obbiettivi terreni.
Greta, dice sostanzialmente due cose, voi avete rubato, voi dovete mettere a posto: ecco, no, questo è disagio non un programma politico. Posto che non credo di aver rubato il futuro, se non in Italia col debito pubblico, ciò che mi lascia il dubbio che la prima manifestazione globale nella storia del mondo possa dissolversi negli ormoni della crescita è proprio il fatto che non ha un progetto e non ha un protagonismo: non sono questi a ragazzi a fare la rivoluzione in prima persona, a tagliar teste da bravi giacobini, a voler poi rimettere le cose a posto con il Primo Console. Essi chiedono con rabbia che la mia generazione lo faccia, come fosse una condanna morale emessa da chi se ne chiama fuori. Cioè, ancora una volta il valore, la piattaforma, il metodo, i mezzi e gli obbiettivi devo averli io dell’Ancient Regime e non loro, loro confinando in un ambito quasi ultraterreno, cioè non sottoposto a verifica fattuale e storica, ancestrale, quasi religiosa l’idea di futuro che urlano.
In una parola, che finalmente si interrompa la cooptazione, esploda una forte rottura generazionale solidamente ancorata a un collettivo disagio è un dato molto positivo e le ricerche dicono che fuori Italia il Climate Change è per la larga maggioranza degli Under Forties in cima alla agenda politica. Che questo assuma una dimensione morale o addirittura mistica, che vaghi tra l’Arcadia e Myricae con pittate di paganesimo neonazi e un po’ di sabor anticapitalista è un rischio che non vorremmo correre. Siamo stanchi, rubateci la fiaccola che dite forse a ragione abbiamo fatto cadere e fateci vedere voi come sapete correre: spero con tutto il cuore ne siate capaci, io ho scoperto sulla mia pelle quanto fu difficile e non alieno a sofferenze l’arrivare fin qui. Ma scordatevi di farlo negando la politica, imparate da Hong Kong.

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