Un nome prima conosciuto solo per l’opinione pubblica austriaca e per qualche isolato esperto del contesto politico dei nostri vicini alpini, è diventato nel giro di pochi giorni un termine ricorrente nei titoli dei maggiori quotidiani italiani ed internazionali. Sebastian Kurz, Sottosegretario all’età in cui molti di noi si laureano per la prima volta e Ministro degli Esteri prima di compiere trent’anni, si appresta infatti a diventare il nuovo Cancelliere della Repubblica Austriaca. Il suo Partito Popolare, finora al governo con i socialisti dello sfidante Christian Kern come junior partner di una litigiosa Grosse Koalition, è riuscito a conquistare il primo posto alle elezioni di domenica scorsa con un brillante 31,5%. Al secondo posto, a sorpresa, i socialdemocratici della SPÖ (26,9%), seguiti dalla destra estrema della FPÖ al 26%. Proprio il paradigma interpretativo del “ritorno delle destre” sembra la chiave di lettura preferita da molti commentatori, che hanno (giustamente) sottolineato la disinvoltura con cui l’ambizioso Kurz ha assunto posizioni nette sul tema dell’immigrazione, molto simili alle storiche parole d’ordine che all’alba dei Duemila avevano portato il partito di Jörg Haider al governo. Il quadro politico austriaco, certo dominato dall’astro nascente Kurz, ha visto però altri interessanti sviluppi: la conferma della dinamicità dei liberali NEOS con il 5,3% e il doloroso successo della lista capitanata dall’ex Verde Peter Pilz, che con il suo 4,4% ha sottratto consensi al partito ecologista, inchiodato ad un umiliante 3,8% e per questo rimasto senza seggi. La palla è passata ora nelle mani del Presidente Alexander Van der Bellen (peraltro un Verde arrivato da outsider alla Presidenza della Repubblica dopo una sfida con l’estrema destra), che ha ricevuto oggi Kurz per discutere della formazione del nuovo Governo. La formula nero-blu (l’alleanza tra Popolari ed estrema destra già sperimentata più di un decennio fa ai tempi di Haider) sembra per ora lo sbocco naturale di questo ciclo elettorale, anche se continuano a rincorrersi con insistenza le voci di una possibile (ma impensabile) alleanza tra socialdemocratici e nazionalisti. Un mix rosso-nero che appare a molti, anche all’interno della SPÖ, un’idea da non prendere nemmeno in considerazione.
Se dovessimo trarre qualche “lezione” da questa consultazione svoltasi sull’altro versante delle Alpi, cosa potremmo concludere?
Le rottamazioni, se ben fatte, funzionano. Sebastian Kurz è appassionatamente conservatore e fin dagli esordi, giovane Popolare in una città a maggioranza socialdemocratica come Vienna, ha dimostrato di essere pronto a mettersi in gioco in prima persona per rilanciare il suo partito. Lo ha fatto sia con l’irruenza tipica di un semisconosciuto militante locale (quando sfrecciava per la Capitale con un fuoristrada nero per attirare giovani elettori) sia con la serietà di un membro del Governo, quando è entrato in un gabinetto di coalizione accettando una delega ad alto rischio come quella all’Integrazione. Lo ha dimostrato anche assistendo, senza fare troppi sgambetti e mostrare segni eccessivi di impazienza, alla triste sfilata di leader che ha preparato il terreno per la sua rapidissima ascesa. Quando il precoce Ministro si è deciso a lanciare l’assalto alla roccaforte del suo partito lo ha fatto senza troppe esitazioni e proteggendosi le spalle tramite un patto di non belligeranza con tutti gli esponenti della ÖVP che amministrano i Länder federali. Infine, lo show-down finale, che in Italia susciterebbe senza dubbio aspre critiche interne e accuse di personalismo: a finire nelle sue mani non è stata infatti la sola leadership partitica, ma anche la facoltà di rinnovarne in profondità le liste, di cambiare il colore che lo caratterizza da decenni (turchese anziché nero) e di ri-denominarlo “Nuova ÖVP – Lista Kurz”. Una rottamazione senza precedenti nel rigido contesto partitico austriaco e che è un esempio alternativo alla scelta del francese Emmanuel Macron di creare ex novo un movimento politico plasmato a sua immagine e somiglianza. In questo caso, è stato un partito storico ad essere rimodellato sulla base delle esigenze del nuovo giovane leader.
La sinistra regge, ma non vince. È vero, chi si aspettava un trionfo della destra estrema e una lotta per il secondo posto tra i due partiti di governo (lo scenario prefigurato per anni alla vigilia di queste elezioni anticipate) ha dovuto ricredersi. Come nel caso di Marine Le Pen, il nazionalismo a forti tinte xenofobe ed euroscettiche è stato fatto arretrare dall’avvento di un leader più moderato e centrista, anche se nulla esclude che quella stessa destra si avvii presto ad entrare nel prossimo Governo dalla porta principale, occupando posti ministeriali chiave (dagli Interni, preda ambita, agli Esteri, passando per il sociale). Per questo la tenuta della socialdemocrazia austriaca, dimostratasi più forte degli scandali che ne hanno minato la reputazione in campagna elettorale, è un risultato dolceamaro. Escluso da responsabilità di governo dopo l’ennesima legislatura segnata dai conflitti tipici delle larghe intese con il centrodestra, il partito guidato dall’ex manager Kern non ha davvero risolto nessuno dei problemi che lo inseguono da anni, a partire dallo scollamento con un bacino, come quello degli “operai” e dei lavoratori dipendenti, che anche in questo caso ha preferito barrare il simbolo della FPÖ. Un’aura da “prodotto elettorale del secolo scorso” che ne conferma le forti radici storiche e attira il voto dei settori più istruiti e urbanizzati della società, ma che non basta per ambire ad essere nuovamente pivot di una maggioranza di governo che non si pieghi ai diktat dell’estrema destra, irricevibili per coerenza e per non condannare il partito ad un’inevitabile spaccatura.
Le secessioni, a volte, hanno successo. Il destino non ha sorriso ai Verdi di Ulrike Lunacek, combattiva eurodeputata che si era candidata alla Cancelleria alla testa di una forza politica molto radicata nelle grandi città e da sempre portatrice di una visione chiara e inconfondibile della realtà sociale. Una determinazione che non è bastata a salvare il partito da una disfatta come l’esclusione dal Parlamento di domenica scorsa e che è dovuta alla scelta di un storico esponente come Peter Pilz di lanciare una lista in proprio. Pilz vanta una lunga esperienza parlamentare e una riconoscibilità pubblica legata al suo ruolo-chiave nel portare alla luce gli scandali più noti degli ultimi decenni. Una decisione, apparentemente determinata dalla volontà di determinare autonomamente il proprio destino politico, che avrebbe potuto esaurirsi in un fallimento e che invece ha rivelato tutta la potenza della sua figura e la capacità di fidelizzare un elettorato inaspettatamente ampio. Tanto ampio da mettere a repentaglio la sopravvivenza della stessa “casa madre”, che solo pochi mesi fa aveva tirato la volata al candidato vincente alla Presidenza della Repubblica.
Una rottamazione ben calibrata che ha permesso ad un giovane leader di spiccare il volo, una sinistra che si mantiene competitiva ma che soccombe all’avanzata del connubio tra destra moderata e destra estrema, una scissione che si rivela vincente perché basata sul capitale politico accumulato anziché su formule che richiamano una vagheggiata purezza ideologica. Quale di questi trend potrebbe ripetersi in Italia? L’Austria è più vicina di quanto immaginiamo.
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