Avezzano, là dove la libertà di stampa è un’opinione
Avezzano chi? Per chi non lo sapesse, come recita Wikipedia, «Avezzano è un comune italiano di 40 978 abitanti che appartiene alla provincia de L’Aquila, in Abruzzo. Elevato a rango di città con decreto del presidente della Repubblica del 21 giugno 1994, è documentato per la prima volta con chiarezza nel IX secolo. Il centro urbano si è sviluppato a cominciare dal riordino amministrativo francese e ancor più verso la fine del XIX secolo in seguito al prosciugamento del lago Fucino, anticamente situato al centro della Marsica. La città, quasi completamente distrutta dal terremoto del 1915, è stata decorata con la medaglia d’argento al merito civile avendo subito nel 1944, pochi anni dopo la ricostruzione, gravi danni a causa dei bombardamenti aerei anglo-americani nonché atti di violenza e rappresaglie nazi-fasciste. A vocazione agricola, oltre che industriale e commerciale, Avezzano costituisce un nodo geografico stradale e ferroviario nell’area appenninica dell’Italia centro-meridionale».
Non solo, aggiungo io, ma Avezzano si appresta a entrare a pieno titolo nei trattati di giurisprudenza in corso di realizzazione in questo periodo perché, proprio ad Avezzano, si sta celebrando un processo che non potrà terminare “a tarallucci e vino”. Ad Avezzano si sta processando la libertà di stampa, quella libertà, come indicato dall’ultimo “Rapporto Rsf sulla libertà di stampa”, per la quale l’Italia occupa con disonore il 41° posto della classifica. Ma voi giornalisti potete scrivere quello che volete, di cosa vi lamentate? Se per “quello che volete” si fa riferimento al pensiero unico, ad un punto di vista senza contraddittorio, alla cronaca che deve essere desunta dai comunicati stampa ufficiali “senza allargarsi troppo”, al dover tacere a causa di scelte editoriali sulle questioni più spinose e, molto spesso, a trasformarsi in immagine pubblica che dia consenso sui social network perché, in fondo, gli articoli li leggono in pochi e quei pochi spesso non arrivano mai alla fine, allora avete ragione. Dimenticate, però, che il giornalista non è, e nemmeno deve essere, un influencer.
Un giornalista non scrive per compiacere e men che meno per condizionare i suoi lettori o per capeggiare la classifica dei “giornalisti più cliccati sui social”. Un giornalista informa (punto).
Ma forse, a pensarci bene, la libertà di stampa non è questo e, purtroppo, la famosa ma disconosciuta pluralità non esiste più. Non vi riconoscete nei giornali? Legittimo ma il vostro riferimento, permettetemi, non può essere basato sulle propalazioni che avvinghiano come un serpente venefico i social, non possono essere le pseudo-verità di persone rancorose e, spesso, parte in causa con l’argomento di cui scrivono sposando “cause” che, di fatto, non esistono. Mio nonno, ai suoi tempi, andava in edicola tutte le mattine e comprava tre quotidiani, molto distanti tra loro per scelte editoriali e appartenenza. Lo faceva perché diceva che spesso la verità sta nel mezzo e quel “mezzo” era un posto scomodo in cui stare e che solo leggendo tre fonti diverse, non le chaimava così ma il senso è quello, poteva cercare di capire cosa fosse successo.
Ma torniamo ad Avezzano. Lo scorso 19 ottobre 2020, ad Avezzano, si è tenuta la prima udienza del processo che vede come imputati per diffamazione a mezzo stampa con l’aggravante del reato commesso nei confronti di pubblici ufficiali i giornalisti Damiano Aliprandi e Piero Sansonetti, rispettivamente giornalista e direttore responsabile de “Il Dubbio” per aver pubblicato, nel 2018, una serie di articoli che approndivano la genesi e la morte del dossier “mafia-appalti”, quel dossier voluto da Giovanni Falcone che diede delega al Ros per lo sviluppo delle indagini. I presunti diffamati sono due magistrati di peso: l’allora Procuratore Generale di Palermo Roberto Scarpinato e il dottor Guido Lo Forte, magistrato ora in pensione. Perché Avezzano? Per competenza territoriale, in quanto la testata, diffusa prevalentemente via web ma edita anche in circa 8000 copie cartacee, viene stampata in una rotativa di Carsoli, comune in provincia de L’Aquila. Il tribunale marsicano, a suo tempo negò la diretta del processo su Radio Radicale e solo nell’ultima udienza questo diniego è stato annullato.
Annunciato come un processo che avrebbe fatto discutere, ma in realtà non è stato così, ha al centro del rinvio a giudizio gli articoli di Aliprandi relativi alla proposta di archiviazione del dossier “Mafia e appalti“ avvenuta il 14 luglio 1992 a firma di Scarpinato e Lo Forte. Un fatto pubblico, già allegato agli atti di diversi processi ma, rispetto al quale, sia Scarpinato sia Lo Forte, hanno una visione dei fatti che, in realtà non corrisponde a quanto dichiarano invece “le carte”, molte delle quali firmate proprio da loro. La posizione assunta, tra l’altro, è stata da loro confermata dalla testimonianza resa all’udienza del 26 ottobre scorso nel corso del procedimento contro “Mario Bo e altri” relativo al depistaggio messo in atto nel corso delle indagini sulla strage di via d’Amelio della quale, se si interessa, potete leggere qui.
Coup de théâtre, nell’udienza dello scorso 15 dicembre l’avvocato Ingroia, durante la sua escussione a fronte di domande dirette e specifiche ci ha raccontato che il concetto di circolarità di informazioni non era sicuramente un pregio per l’allora procura di Palermo, che quasi l’80% dei magistrati era asservito alle scelte dell’allora Procuratore Giammanco e che Borsellino aveva cominciato a tenere chiusa la porta del suo ufficio e a convocare riunione da lui ritenute importanti al di fuori del “Palazzo” come accadde il 25 giugno 1992 quando ebbe una riunione con gli ufficiali del ROS nella loro caserma. Non solo, l’avvocato Ingroia ci ricorda, anche attraverso le sue audizioni tenutesi al CSM nel periodo successivo alla strage di via d’Amelio, di come Borsellino non si fidasse quasi di nessuno e ha aggiunto «Ricordo che incontrandomi nella sua stanza mi disse di non dire a nessuno di un’importante collaborazione che stava per arrivare. La prima volta non mi disse neanche il nome, ma che c’era un grosso pentito che si apprestava a collaborare e che a suo parere poteva fare luce su legami tra Cosa Nostra e altri ambienti. Mi chiese di non dirlo neanche a Roberto Scarpinato, perché quest’ultimo era uno con cui io parlavo».
Cosa c’entra con Avezzano tutto ciò? Molto perché sia nell’udienza del 26 novembre sia in quella del 15 dicembre del già citato procedimento, l’argomento portante delle escussioni era proprio il “dossier mafia-appalti”, quel dossier sul quale vertevano gli articoli di Aliprandi che ha, inconsapevolmente, commesso il reato di “lesa maestà”. Ma questa non è l’accusa contenuta nella richiesta di rinvio a giudizio che invece indica «diffamazione a mezzo stampa con l’aggravante del reato commesso nei confronti di pubblici ufficiali», ossia un reato che prevede che venga punito chiunque offenda la reputazione altrui attraverso il mezzo di comunicazione della stampa con la richiesta di aggravante perchè, al tempo, il dottor Roberto Scarpinato era Procuratore Generale di Palermo.
Offesa? È forse “offesa” indicare che ci fu una richiesta di archiviazione del procedimento riguardante il “dossier mafia-appalti” presentata il 13 luglio 1992, vistata dal Procuratore della Repubblica P. Giammanco il 22 luglio 1992, archiviata il 14 agosto 1992 e che, come ritenuto da ex-colleghi dei magistrati firmatari, detta inchiesta era prioritaria per il dottor Borsellino che riteneva fosse stato messo in atto un insabbiamento, o quantomeno una sua minimizzazione, e che gli fu nascosta durante la riunione del 14 luglio 1992 la richiesta stessa che porta in calce la firma del dottor Roberto Scarpinato e del dottor Guido Lo Forte?
Di fatto ci sono due magistrati molto celebri, coccolati dei media più importanti, compreso il “Fatto quotidiano” e alcune emittenti televisive sia di Stato sia commerciali, che accusano due giornalisti di essersi occupati di cose che non li riguardano e che, altra stranezza, accusandoli di uscire “a orologeria” con i loro pezzi. A questo si deve aggiungere che un Gip e un Gup diano ragione ai propri colleghi e che nessuno sia in grado di capire in cosa realmente consista la diffamazione. È evidente che se la proposta di archiviazione non fosse mai stata richiesta, e ottenuta in tempi così rapidi da far pensare a un guizzo di efficienza che potrebbe essere ospitato sul “Guinness dei primati”, bisognerebbe rimettere in discussione tutto e accusare sia Sansonetti sia Aliprandi innanzitutto di cretineria e poi di essere incapaci di leggere carte e atti giudiziari consigliandoli, dopo aver scontato la giusta pena, di scegliersi un altro mestiere. «Ce la faranno i nostri eroi?», per parafrasare il sottotitolo di un film. In questa storia non ci sono eroi e non c’è nemmeno nessun erede. Ci sono due cittadini che di mestiere fanno i giornalisti, purtroppo per loro, che stanno affrontando un processo surreale perché la loro ragione è evidente e al di sopra di qualsiasi ragionevole dubbio e che stanno affrontando, processualmente parlando, due MagiStar, i quali sanno che usciranno vincitori da questo duello che loro stessi hanno voluto indire sapendo di vincerlo.
Si tratta di un processo contro la libertà di stampa e la libertà di espressione, diritto tutelato dall’art. 21 della nostra Carta Costituzionale. Si tratta, inoltre, di creare un precedente che condizionerà, inevitabilmente, procedimenti analoghi che potranno presentarsi nel futuro. Aspettando che ci vietino definitivamente di scrivere, ma intanto leggetevi questo.
Un commento
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Parole condivisibili. il comportamento di queste persone è degno di disisitima da più punti di vista