Fine pena (forse)
Venerdì 19 marzo, alle ore 18.15, verrà presentato il volume “Misure di sicurezza e vulnerabilità: la ‘detenzione’ in Casa di lavoro” (qui la scheda libro), a cura di Francesco De Vanna, Mucchi editore, appartenente alla collana “Prassi sociale e teoria giuridica”, diretta da Thomas Casadei e Gianfrancesco Zanetti.
Per partecipare all’incontro, patrocinato dalla Centro di Ricerca Interdipartimentale su Discriminazioni e vulnerabilità (CRID) di Unimore e dalla Camera Penale di Modena Carl’Alberto Perroux, sarà sufficiente collegarsi a questo link.
Il volume di Francesco De Vanna si propone di fare luce sulla condizione delle persone costrette in Casa di lavoro, quell’ergastolo-bianco rappresentato dalle misure di sicurezza detentive, che sopravvive ancora oggi.
Il solo fatto che, ancora oggi, il nostro ordinamento giuridico tolleri un sistema risalente all’impianto originario del codice Rocco, così come concepito nel 1930, a voler ragionare in termini concettualmente corretti, appare incredibile.
Basti considerare, in proposito, che, all’indomani degli Stati generali sull’esecuzione penale, l’allora Ministro della giustizia Andrea Orlando si peritava di ricordare espressamente che compito degli stessi sarebbe stato quello di definire concretamente un nuovo modello d’esecuzione penale che garantisse una più dignitosa fisionomia della pena.
E basti considerare in proposito che, per espressa ammissione del documento finale degli Stati generali sull’esecuzione penale, una pena moderna che voglia, in quanto tale, essere davvero in linea con i dettami propri della giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo, debba sempre essere improntata a finalismo risocializzativo.
A ciò, cioè, che dovrebbe sempre ispirare tutta la fase esecutiva e che non dovrebbe mai contrassegnare una retorica declamazione.
Sono stati gli stessi Stati generali sull’esecuzione penale a ricordare che, ex art. 3 C.e.d.u., nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti.
E sono stati gli stessi Stati generali sull’esecuzione penale a ricordare che ogni vulnus ai diritti inviolabili del condannato ne offende la dignità e preclude ipso facto la possibilità che la pena possa svolgere la propria funzione rieducativa, essendo impossibile rieducare alla legalità un soggetto illecitamente umiliato nella sua dignità di uomo.
Ma, se davvero vogliamo che la pena tenda alla rieducazione del condannato – insegna la Corte Costituzionale –, dobbiamo necessariamente accettare alcune implicazioni.
La prima implicazione è che il principio rieducativo può riguardare unicamente l’uomo considerato come fine – recte: come responsabile e libero artefice di quel fine – e non come mezzo d’una strategia politica e ciò a prescindere dalla strategia politica che, di volta in volta, viene concretamente in emergenza.
La sola idea che la restrizione della libertà personale possa comportare una capitis deminutio è e deve essere estranea al vigente ordinamento costituzionale, perché il vigente ordinamento costituzionale, piaccia o meno, si basa sul primato della persona umana e dei suoi diritti.
La seconda implicazione è che il principio rieducativo postula l’offerta di chances riabilitative: il tempo della pena – si legge nel documento finale degli Stati generali sull’esecuzione penale – non deve mai essere una sorta di time out esistenziale, ma deve sempre essere un tempo d’opportunità per un ritrovamento di sé e di un proprio ruolo sociale.
La terza implicazione è che il principio rieducativo postula che il condannato sia titolare d’un vero e proprio diritto alla rieducazione.
In prospettiva de iure condendo, in altre parole, a venire qui in emergenza è il diritto a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo.
Se questi sono i traccianti propri d’una moderna esecuzione penale, occorre allora ammettere che, rispetto alla stessa, le misure di sicurezza detentive altro non rappresentano se non concetto assolutamente distonico.
Perché è un fatto, piaccia o meno, che le misure di sicurezza detentive contrassegnino un istituto pensato per punire, non già un delitto, bensì una persona.
E’ un meccanismo, questo, che, così impostata la questione, oggettivamente fa paura.
Fa paura come fa paura qualsivoglia meccanismo costruito a partire da presunzioni assolute: qui il legislatore presume che la persona sia soggetto pericoloso che pericoloso è e pericoloso rimane.
Anche in questo caso, però, il problema, a ben guardare, è culturale.
Anche in questo caso, infatti, si tratta, a ben guardare, di rompere un monopolio culturale: quel monopolio culturale che ancora oggi non accetta che le pene, per essere eque, debbano essere giuste.
E giusto, invero, non può essere, per sua stessa natura, un istituto – quello delle misure di sicurezza detentive appunto – che risulta oggettivamente costruito a partire dalla negazione della dignità delle persone.
Nessun delitto può giustificare una pena (forse) senza fine.
Perché una pena (forse) senza fine è una pena il percorso trattamentale sotteso alla quale, a ben guardare, è modellato a partire, non già dall’uomo, ma dal fatto commesso.
Una pena (forse) senza fine è una pena il percorso trattamentale sotteso alla quale, a ben guardare, è costruito a partire da inaccettabili presunzioni legali d’irrecuperabilità sociale.
Una pena (forse) senza fine, a conti fatti, equivale a tortura, perché nega alla persona quel diritto alla speranza, protetto anche dalle fonti sovranazionali, che peraltro si traduce sovente in una spinta motivazionale in grado di promuovere positive evoluzioni psico-comportamentali.
Con questo spirito, varrà la pena ascoltare con grande interesse la presentazione del volume di Francesco De Vanna che, peraltro, parteciperà e coordinerà l’incontro. Presterà il proprio saluto l’avvocata Nicoletta Cavani (Segretario della Camera Penale di Modena) e interverranno Tatiana Boni (membro dell’Osservatorio Carcere della Camera Penale di Modena), Giuliano Pisapia (Parlamentare europeo) e Matteo Maria Zuppi (Cardinale di Bologna).
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