«Giorgio, si chiamava Giorgio». In ricordo di Giorgio Boris Giuliano

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21 Luglio 2022

Tutto inizia quando una televisione accesa all’interno di un piccolo appartamento a Milano trasmette, durante l’edizione serale del telegiornale, la notizia della strage di Ciaculli. È il 30 giugno 1963. L’appartamento è quello in cui vive Giorgio Boris Giuliano. Ha ascoltato il servizio in silenzio. Distoglie lo sguardo dalla televisione e guarda la moglie, Maria. Giorgio Boris Giuliano, decide che il suo posto è a Palermo.

Era nato a Piazza Armerina, in provincia di Enna, il 22 ottobre 1930. Suo padre lavorava per la compagnia di navigazione del Regno e la sua infanzia fu costellata di paesi e usanze nuove e da apertura mentale. Lui e il fratello Emanuele si trovano a essere cresciuti come cittadini del mondo, non come semplici italiani. E, forse proprio per questo, il loro approccio al presente non è mai stato convenzionale.

Giuliano arriva a Palermo e poco dopo entra nella Squadra Mobile, prima alla Sezione Omicidi, poi come vice-dirigente e infine come dirigente dall’ottobre del 1976. Fino a quel momento, il capo della squadra Mobile era stato Bruno Contrada che, dalla nomina di Giuliano diventa capo della sezione siciliana della Criminalpol.

La vita professionale del dottor Giuliano, che subito dopo il suo ingresso alla Mobile “perderà” il suo primo nome Giorgio per diventare Boris Giuliano, segue la lunga linea di sangue che, a partire dalla scomparsa e successivo omicidio di Mauro De Mauro del 16 settembre 1970 arriva alla mattina di quel 21 luglio 1979 quando, all’interno del bar Lux, Leoluca Bagarella gli spara alle spalle. Giuliano convocò nel suo ufficio Gaetano Badalamenti, il boss di Cinisi, e fu, per il boss, la prima volta che varcava la porta della Squadra Mobile. Poi ci fu la scoperta del covo di via Pecori Giraldi e l’identificazione dei nuovi interessi mafiosi su Palermo.

“Follow the money”, segui le tracce che lascia il denaro. Il ritrovamento, nel maggio 1978, nelle tasche di Giuseppe Di Cristina, membro di spicco della cosca mafiosa di Riesi, di diversi assegni, tutti dello stesso importo, e i cui beneficiari erano riconducibili a prestanome delle diverse famiglie mafiose, e il ritrovamento di una valigia contenente oltre mezzo milione di dollari, nel 1979, lasciata abbandonata sui nastri di trasporto bagaglio dell’allora aeroporto di Punta Raisi, scatenarono il segugio investigativo che era in Boris Giuliano. Troppo precisa la sua pista e, soprattutto, troppo vicino al quadro che, sotto i suoi occhi, giorno dopo giorno, si stava completando. Identificò per primo i corleonesi, i loro iniziali rapporti con la mafia “borghese” che dominava la città e comiciò ad intuire le possibili alleanze. Ma non erano persone da salotto, i corleonesi. Venivano soprannominati “viddani”, contadini, gente che veniva dalla campagne. Molto più abituati alla fame, e quindi con maggior necessità di riscatto sociale di Stefano Bontade o di Salvo Riccobono, mafiosi di rango e importanti esponenti di quella mafia “borghese” che abitava la città, mafiosi che gli stessi “viddani” riempiranno di piombo negli anni successivi alla morte Giuliano, durante la folle guerra di mafia che trasformò, di nuovo, le strade di Palermo in fiumi di sangue, sotto l’indifferenza di tutti. Giuliano, per primo, aveva capito quanti e quali fossero i legami tra “cosa nostra” e i poteri economico-politici e, per primo, grazie alle sue competenze, fu accettato come investigatore dai suoi colleghi d’oltreoceano che, fino a quel momento, aveva snobbato le forze di Polizia e non avevana mai istruito operazioni comuni tra le due sponde dell’oceano Atlantico. Giuliano ci riuscì. Frequenterà anche un corso di specializzazione, a Quantico, nella prestigiosa scuola dell’FBI. Era un poliziotto moderno, al di fuori dagli schemi. Fu il primo capo della Squadra Mobile di Palermo che teneva la porta del suo ufficio aperta. Dopo di lui, per lunghi anni, quella porta ritornò a essere una porta chiusa. Fu il primo a considerare “sacra” la scena del crimine. Fu il primo a chiedere e controllare che non venisse contaminata perchè “i muri parlano”, diceva. Fu il primo a stabilire un rapporto franco e diretto con la stampa, riconoscendole un ruolo importante nella lotta alla mafia che, assieme alla sua squadra, stava combattendo in tempi in cui, ancora, venivano rilasciate dichiarazioni che dicevano che “la mafia non esiste, è solo una scusa per danneggiare la Sicilia”. In questo clima, proprio nel momento in cui Palermo vive la contraddizione del doversi trasformare da città dei salotti nei quali facevano la loro comparsa contemporaneamente esponenti delle istituzioni, dirigenti delle forze di polizia, mafiosi di rango ed imprenditori, nella città costretta a rimpiangere la “vecchia mafia” perché meno appariscente e cruenta. In quel 1979 non basterà la morte di Boris Giuliano. Era già stato ucciso Mario Francese, Filadelfio Aparo. A settembre morirà sotto i colpi delle armi mafiose Cesare Terranova.

La mattina di quel 21 luglio, si prevedeva una calda giornata, come succede spesso, in quel periodo a Palermo. La città è semideserta, quasi tutti sono andati nei villini delle località marittime che, a est e a ovest, affiancano Palermo sul mare. Quella mattina, in via Alfieri, la sveglia suona qualche minuto prima. Giuliano, prima dell’arrivo dell’auto di servizio che lo deve portare alla Mobile, deve sbrigare un paio di faccende. Per prima cosa pagare la pigione, e per questo basterà un minuto perché sarà sufficiente consegnare la busta alla portiera. Bisogna riparcheggiare la Dyane. Nei giorni precedenti, Giuliano aveva accompagnato al mare la famiglia. Maria, la moglie, e i figli, Alessandro, Emanuela e la piccola Selima, lo aspetteranno là ancora qualche giorno, poi potrà raggiungerli. L’auto arriva per le otto ma, quella mattina, una ventina di minuti prima del solito, il dottor Giuliano esce di casa. Uscendo saluta la portiera e le consegna la busta con la pigione. Esce dal portone. Siamo al civico 47 di via Alfieri, a pochi passi da piazza Unità d’Italia. Giuliano si dirige a sinistra, raggiunge la Dyane e trova un parcheggio più comodo, anche grazie alle poche presenze che ci sono in città. Mancano ancora più di dieci minuti all’arrivo dell’auto. Giuliano torna indietro e si dirige verso via De Blasi. Là, dopo il cinema, sa esserci un bar, il bar Lux. Non lo frequenta abitualmente. Ci sono posti, a Palermo, in cui i poliziotti preferiscono non andare. E il bar Lux è uno di questi, per via di una parentela tra il proprietario e la famiglia Riccobono, famiglia mafiosa. Ovviamente non c’è nessun pregiudizio ma, come si dice a Palermo, “megliu diri chi sacciu, ca diri chi sapia”, ossia “meglio dire che so, piuttosto che dire che non lo sapevo”. Possiamo ipotizzare che il dottor Giuliano, quella mattina, abbia deciso di andare al bar Lux all’ultimo minuto e questo abbia spostato il luogo dell’agguato, probabilmente previsto davanti a casa nel tragitto tra il portone e l’auto in attesa. Boris Giuliano entra nel bar Lux. La Fiat 128 gialla, su cui viaggia Leoluca Bagarella arriva in via Di Blasi e si infila in via Domenico De Marco. Bagarella esce dall’auto. Ha con se una pistola Beretta calibro 7,65. Arriva con passo veloce davanti al bar Lux. Giuliano è lì, di spalle. Sta pagando il caffè che ha ordinato. Bagarella alza l’arma verso Giuliano. Il barista, che vede Bagarella con l’arma in mano, si butta sotto il bancone. Giuliano percepisce che sta succedendo qualcosa. Infila la mano sotto la giacca per prendere la pistola e comincia la torsione del busto. Non fa in tempo e non ha scampo. Bagarella spara sei colpi a ripetizione. Giuliano stramazza a terra. Bagarella spara un’ultimo colpo. Fugge sulla Fiat 128 che ha ancora il motore acceso. “Hanno ammazzato una persona… Hanno ammazzato una persona…” questo sarà il grido del proprietario del bar che correrà fuori con la testa tra le mani urlando.

Le indagini dell’omicidio del dottor Giuliano saranno condotte sia dalla Squadra Mobile di Palermo sia dall’Arma dei Carabinieri. Se ne occuperà, per i Carabinieri, il capitano Basile, della tenenza di Monreale seguendo l’indagine del dottor Paolo Borsellino che, a partire dalle indagini sul ritrovamento del covo di via Pecori Giraldi operato da Giuliano e alle sue tracce e intuizioni investigative, inizierà, con Giovanni Falcone, il più importante filone investigativo che confluirà nelle indagini del pool antimafia che porteranno al maxi processo.

Nel 1995, nel processo per l’omicidio Giuliano, furono condannati all’ergastolo i boss mafiosi Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Francesco Madonia, Giuseppe Calò, Bernardo Brusca, Nenè Geraci e Francesco Spadaro come mandanti del delitto mentre Leoluca Bagarella venne pure condannato alla stessa pena come esecutore materiale dell’omicidio.

Boris Giuliano raccontato dai suoi uomini

Paolo Moscarelli

Alla Squadra Mobile fui chiamato nel 1974, dove conobbi Giuliano, Contrada, Vasquez, De Luca, e tutto il resto del gruppo. Fui accolto con grandissima familiarità, prima ancora che Giuliano attuasse quella “rivoluzione copernicana” all’interno della Squadra Mobile, per cui i funzionari di polizia erano posti a dirigere le singole sezioni.

I vecchi funzionari erano accentratori delle investigazioni e i funzionari erano fuori dalla vera investigazione. Con Giuliano, invece, tutto questo cambiò. Cambiarono i protagonisti messi alle investigazioni con i collaboratori. Il lavoro era di equipe. Per cui il fatto di sangue si inquadrava anche nell’interesse delle altre sezioni. Poteva essere che un omicidio avvenisse per estorsioni…o per spartirsi bottini, perché i moventi posso essere diversi, allora c’era bisogno della competenza dei singoli funzionari e del loro punto di vista.

Io iniziai alla Mobile con il mio capo che era Speranza, poi trasferito per motivi di sicurezza, e ne diventai io il capo della sezione antirapina, quindi, da quel momento i contatti con Giuliano si sono sempre più intensificati. In particolare quando ci fu quella che è considerata una delle rapine storiche, quella alla Cassa di Risparmio, che segna l’inizio del percorso che si chiuderà il 21 Luglio del 1979.

La squadra Mobile non è fatta soltanto di funzionari, ma anche di marescialli, ispettori che lavorano insieme. Nessuno è detentore della verità e ognuno é un valore aggiunto, ognuno può esprimere la sua opinione su un avvenimento… ad esempio ci fu, una volta, un autista che aveva notato un dettaglio durante un sopralluogo per un delitto e, nel caso specifico, ci comunicò di aver assistito un incontro tra due personaggi dettaglio che ci fece collegare gli eventi e ci diede la chiave per risolvere il delitto. Il lavoro di gruppo ha consentito di far entrare tutti nel gioco.

Quando il verbale dell’investigazione era completo lo si presentava al sostituto procuratore, in quegli anni c’erano Signorino, Sciacchitano, Borsellino, il quale esaminava i fatti, integrava o suggeriva il lavoro investigativo della polizia, facendolo proprio. Questo era utile per la parte processuale. Poi si presentava al giudice terzo che indicava eventuali procedure da effettuare.

Il valore dell’indagine era dovuto alla ricerca delle prove, dovuto alle evidenze che nascevano dal riscontro dei cosi detti confidenti di polizia. Allora facevamo uso dei confidenti. Argomento delicatissimo, quello sui confidenti. A me, personalmente, è capitato.

Il valore del funzionario nasceva anche dalla possibilità e dalla capacità di avere delle fonti informative e gestire senza mettere in pericolo se stesso e la fonte. Spesso, la fonte confidenziale rischiava, anche inconsapevolmente, di correre dei pericoli. Tante volte ci è successo di consigliare a un confidente di non fare una certa cosa, perchè sarebbe stato certamente in pericolo, si sarebbe scoperto. Nessuno di noi ha mai scherzato con la vita delle persone.

Mai sentito Boris parlare di gerarchia. Ci poteva essere qualche discussione ma mai ha assunto un atteggiamento autoritario. Ogni volta che succedeva qualcosa il primo a partire era lui e noi seguiamo a ruota. In simbiosi. Sei o sette persone, si partiva tutti insieme, si arrivava sul luogo dell’accaduto, correndo come folli. Dopodiché ognuno svolgeva i compiti per cui era assoldato, chi andava  a casa della vittima, chi nel negozio o dove altro sia, chi sentiva questo e chi si occupava di quell’altro. Era un modo per congelare la situazione in tempi brevissimi. Poi ci s’incontrava per fare il punto. Molti e ottimi erano, in quel periodo, i rapporti con l’arma de carabinieri.

Si viveva insieme, praticamente. I figli ce li siamo ritrovati tutti già grandi. C’era sempre l’omicidio ola rapina alle nove e mezza, dieci di sera, lui con grande abilità da capo, ci trascinava a prendere un caffè, una bibita, per stare fino ad un certo orario fin quando realmente non scattava l’allarme: rapina in via houel, omicidio a borgo nuovo. E allora tutti si partiva con le volanti e si raggiungeva il posto. La cosa era ovviamente faticosa. Si rientrava in ufficio. Fascicoli, pativano le indagini, notti con eventuali fermi. Si passava notti in attività.

Lui era un lavoratore. Era molto intelligente e ironico. Si lavorava in armonia. Non dico sorridendo ma quasi. Sempre in armonia. Questo cercammo di fare, dopo, noi con i nostri collaboratori. Ti accorgi, del resto, che è la tua vita. È l’importanza del gruppo.

Appresi dell’omicidio (di Giuliano, ndr) mentre stavo ancora attendendo l’autista che non era ancora arrivato. Di solito i funzionari arrivano un pò prima del capo, e questa era pure la mia abitudine. Dalla Mobile mi risposero che avevano sparato a Giuliano e lo shock venne a me.

La gambe non mi ressero e diventarono mosce, mosce.

Devo dire che, in quel periodo, tutti noi fummo completamente allo sbando, in un certo senso. Del resto è un fatto umano, questo mi piacerebbe fosse chiaro: i poliziotti non sono dei superman, anche se, certamente, hanno una visione tutta personale della paura. Ci si convive e diventa parte di te che non te ne accorgi più. Quando entri nel gioco, non te ne accorgi più, non ci pensi. Non si tratta d’incoscienza, però quando poi ti accorgi che cominciano a fare il tirassegno…

Eravamo tutti rimasti sbandati.

Ricordo i funerali di Boris. Daniele Billitteri scrisse, ad ognuno di noi, una lettera bellissima, la più bella cha abbia mai letto e sopratutto ricevuto. Lui ci vedeva dall’esterno, da fuori. Ci vide sgomenti, come descrisse benissimo in quella lettera. Noi eravamo stati privati di una persona che aveva riempito la nostra vita. Tutt’ora però è presente. È una pietra miliare. Questo non significa che le altre morti non ci abbiamo colpito, per le quali abbiamo pure sofferto, per tanti uomini delle istituzioni. Anche le altre morti ci hanno sconvolto, ma quando trascorri tutti i giorni con una persona come Boris… te ne senti privato.

 

Vincenzo Boncoraglio

Sono entrato nell’amministrazione nel 1973. Fui inviato a Palermo, per un tirocinio di pochi mesi. Ero contento, perché qui c’era la mia fidanzata, che poi sarebbe diventata mia moglie, ma anche dispiaciuto, perché sapevo che dopo quei tre mesi sarei stato trasferito presso chissà quale altra sede, che doveva essere quella definitiva. Però, cosi non fu. Una circolare stabilì che i funzionari inviati per tirocinio nelle varie questure dovevano rimanere assegnati in servizio presso le stesse. Perciò mi ritrovai nel febbraio del 1973 in un ufficio pieno di scartoffie e verbali di misure di prevenzione, dal quale mi trasse fuori Bruno Contrada, che mi impiegò nelle squadre volanti. Per me fu una grande gioia: era l’aspirazione di tutti noi, entrare a far parte della squadra volanti.

Avevamo il grande desiderio di misurarci con questi eccellenti funzionari, e con quella squadra Mobile di Palermo. Alla sezione volanti sono rimasto per otto mesi. Contrada volle poi affidarmi la sezione furti e rapine. Era la prima assegnazione che ebbi nella squadra Mobile di allora. Boris era alla sezione omicidi e alla sovrintendenza al 113 e, quindi, alle squadre volanti. La personalità di uno come Giuliano colpiva immediatamente. Colpiva per l’affabilità.

Ricordo che, prima ancora che ci fosse la squadra di Boris, si bussava per entrare nell’ufficio e parlare con un collega, anche solo di un grado superiore. Si bussava e si faceva anticamera. Con Giorgio, o meglio con Boris, non solo non si bussava ma ci si dava anche del tu. Questi modi venivano certamente da una grande versatilità, da una grande disponibilità verso l’altro.

Ricordo le parole che lui spesso mi ripeteva e che riportano ad un concetto moderno, quello di “prossimità”. Lui, che mi chiamava “Bonco”,  spesso mi diceva che se non si era coesi tra di noi, non si poteva essere vicini alla gente. E questo messaggio è stato per me una grande lezione di vita. Fu proprio con Boris che avvenne una sorta di rottura delle barriere che c’erano tra noi, non era più d’obbligo bussare alla porta e non era più d’obbligo il “lei”, all’inglese. Per noi, giovani funzionari, dare del tu a un capo, ad un superiore, un Vice Questore della caratura di Boris era una bella sensazione e una prova di grande fiducia.

Ero rientrato dalle ferie, da cinque giorni circa. Era Luglio, un periodo di turnazioni, di esigenze di organico, croniche e non. Quella era davvero una fucina di prossimità istituzionale. Valeva il motto uno per tutti, e chiunque avesse del tempo libero poteva subito metterlo a disposizione.

Avevo allora chiamato Boris e gli avevo detto che ero disponibile. Mi colpì la sua risposta che mi rassicurava che tutto era sotto controllo. Mi disse di trascorrere ancora 4-5 giorni di vacanza e dedicarmi alla mia famiglia. Ci demmo appuntamento dopo qualche giorno, in forma, più di prima. Questo successe, circa, cinque giorni prima dell’omicidio.

Dirigevo la squadra Volanti, 450 uomini, e il 21 Luglio uno dei miei funzionari, mi pare fosse Gentile, mi chiama per darmi la notizia. Pochi minuti sono trascorsi da casa mia per raggiungere il posto. Penso che mi siano spuntate le ali. Trovai subito una volante disponibile e mi precipitai al bar Lux. Per me fu come se di colpo un tronco, una quercia non avesse più le radici e fosse sul punto di crollare. Era il disastro. Per noi Boris era tutto: era la nostra famiglia, era la società, era la gente, e quindi ci siamo sentiti uno smarrimento che, tuttavia, cercammo di non dare a vedere. Boris ci aveva insegnato anche questo. Tenerci dentro le cattive notizie e cercare di essere rassicuranti nei confronti della gente, con un volto che potesse infondere fiducia.

Ma il colpo fu troppo forte. Quasi pareva un sogno, anzi un incubo. E non lo dico banalmente. Non ci volevamo davvero credere, non era la realtà che quella mattina ci colpì. Era come fosse venuto a mancare uno della nostra famiglia, forse anche di più. Oso dire questo perchè durante dodici anni di matrimonio, vedevo mia moglie soltanto quando dormiva e la domenica, per mezzo pomeriggio. La vita intera era trascorsa insieme ai colleghi della Mobile. Eravamo riusciti a riconoscere anche l’uno il respiro dell’altro. Vivevamo insieme e questo valeva non solo per il gruppo ristretto dei funzionari, ma per tutti gli agenti. Insieme. Eravamo veramente coesi, di una coesione che non ammetteva distinzioni. La squadra, il fare sistema, la leadership. Questi sono tutti concetti moderni, di trent’anni dopo, rispetto al comune sentire di quegli anni. Ma Boris ce li aveva fatti vivere.

Non si poteva concepire che fosse caduto il nostro capo il 21 luglio. Lui era il capo di questo insieme informe, perché ognuno di noi non brillava per la singola specialità, ma brillava in quanto coeso con tutti gli altri. Di speciale aveva tanto. Prima di tutto, l’onestà, una purezza intellettuale, la solidarietà anche verso il criminale, l’umanità, anche se può sembrare un luogo comune. E soprattutto, mi piace ricordare, il concetto di prossimità, di vicinanza alla gente. Si fermava in mezzo alla strada per far passare una persona, un anziano o bambino, chiunque. Era un’umanità vera, reale, concreta.

Tra le doti personali, quella che gli invidiavamo era la spiccata ed eccezionale capacità d’intuizione, come se avesse una palla di vetro per prevedere quello che sarebbe successo, dopo un certo fatto. Tutto questo dovuto ad un’intelligenza viva e ad una memoria eccezionale.

La cosa che mi è mancata di Boris è il senso della squadra. Quando dico squadra significa fare gruppo, sistema. Il senso della squadra continuava anche quando, finito il lavoro, andavamo a prenderci una birra. Senza essere sbirri. Era una sorta di ringraziamento per la giornata di lavoro che finiva, a volte, come diceva lui, a fare quell’angolata all’edicola  alle otto o nove di sera. Noi non eravamo entità distinte, forse solo per le mansioni, ma poi agivamo tutti insieme, e insieme ci spartivamo i compiti, e poi, tutti insieme, facevamo il punto. Questo è quello che mi manca, il senso della squadra, il gruppo. Raccontarci anche le cose banali, i particolari anche insignificanti…mi sembrava adesso, rileggendo tutto questo, di essere negli anni dei RIS.

Lui inventò le strisce gialle e rosse che adesso usano la polizia municipale. Transennavamo anche le scene all’esterno. Lui era cosi. Non entrava nessuno. Neanche prefetto, questori…nessuno. Prima la scientifica.  Poi, ognuno di noi pensava all’acquisizione.

 

Antonio De Luca

Arrivai a Palermo nell’agosto del 1968, e fu il luogo dove mossi i miei primi passi, essendo la mia prima sede. Inoltre mi piaceva la Squadra Mobile e quindi, quando il questore cui mi presentai all’arrivo mi chiese dove volessi andare, non ebbi dubbi e dissi “la Squadra Mobile!!”. Non era semplice, in quel periodo e forse anche in altri, arrivare così, all’improvviso di prima nomina e essere assegnato alla Squadra Mobile per quale venivano normalmente scelti funzionari con qualche anno di esperienza alle spalle nei commissariati, e invece io vi fui assegnato. Perchè? Perchè mi fu considerata “attitudine al comando”, grazie al periodo che svolsi, come ufficiale di complemento, nel battaglione corazzato di Catania, e in effetti io chiesi di essere assegnato proprio a Catania, una città che già conoscevo e nella quale mi ero trovato bene. Ma il Ministero mi assegnò a Palermo, e la mia precedente esperienza mi servì per entrare nella Squadra Mobile di quella città, nello specifico alla sezione Volanti.

Le Volanti erano la Quinta Sezione della Squadra Mobile di Palermo e io mi ritrovai ad esserne il funzionario responsabile. Ero io, il giovane funzionario che comandava quella squadra. Ero io, il giovane funzionario che viaggiava su quelle bellissime Alfa Romeo che avevamo in dotazione e infine ero sempre io, che in tutti gli interventi, arrivavo sul posto e questo mi permise di avere rapporti diretti con Giuliano sin dal mio arrivo alla Squadra Mobile, anche perchè lui era allora il responsabile della Sezione Omicidi. Furono anni meravigliosi, con esperienze sempre dense e piene. Ho sempre amato il mio lavoro ma, forse, in quegli anni, oltre all’amore che ancora oggi provo, vero, profondo, in quegli anni dicevo c’era anche una sorta di passione carnale.

Giuliano era molto buono con me, conscio anche della mia scarsa esperienza e, se necessari, da buon mentore, non risparmiava i rimproveri, come quella volta nelle campagne di Monreale. Ricordo benissimo che era domenica e ci fu un incidente di caccia, nel qualche persa la vita una persona. Una volta sul posto, dopo aver verificato che non ci fosse dolo nella morte, terminai il rilevamento e stilai il mio rapporto, decidendo che non valeva la pena disturbare Giuliano, anche perchè era domenica ed era sicuramente con la famiglia. Ma lunedì mattina me lo ritrovai davanti alla scrivania arrabbiatissimo per essere stato scavalcato nel ruolo, perchè era in effetti lui il funzionario responsabile della Sezione Omicidi:”…e lo decido io, se è incidente di caccia o no!”. Capii subito che mi ero preso una libertà che non potevo e mi prodigai per commentargli il verbale, per fargli vedere  ogni singolo elemento e alla fine concordò con me che si era tracciato di un semplice incidente di caccia. Io ero allora molto giovane, senza significativa esperienza di indagini e mi rendo conto che anche in quell’occasione Giuliano mi insegnò qualcosa.

Nel mio lungo periodo a Palermo sono stato anche alla Sezione Antimafia e alla Sezione Omicidi. In quegli anni era evidente il lavoro di squadra che veniva svolto in quegli anni, gli anni di Contrada, di Giuliano. Entrambi molto bravi, a mio giudizio, ma Boris era un trascinatore e, oltre ad essere un ottimo investigatore, si preoccupava anche della prevenzione. Amava stare in mezzo alla gente, nelle strade. E con Giuliano siamo diventati amici. Alessandro, il figlio di Boris, (oggi Questore di Napoli, ndr), l’ho visto crescere. E ricordo quando decise di entrare in Polizia, anche perchè ne fui felicissimo. E gli rimasi vicino per tutto il periodo in cui frequentò l’Istituto Superiore di Polizia, a Roma. È per me quasi come un figlio, ci sentiamo spesso, non solo per le date ufficiali.

Con Boris si stava sempre insieme, anche la sera. “facciamoci una camminata…” diceva e così, con la scusa di andarci a bere una birra arrivavano le dieci, dieci e mezza, quelli che oggi potrei definire “gli orari critici”, ossia quelli in cui la media degli omicidi giornalieri si alzava significativamente e così anche la media delle rapine, perchè veniva sfruttato, nel primo caso il rientro a casa e, nel secondo, la chiusura dei negozi con l’incasso appena chiuso. E Boris voleva che noi fossimo sempre pronti, per intervenire nel più breve tempo possibile. E lui era lì, a insegnarci come si comporta un vero capo, alla nostra testa e noi dovevamo imparare a fare la stessa cosa con i nostri uomini.

In quei giorni Giuliano era felicissimo, ricordo che la mattina del 14 luglio mi chiamò nel suo ufficio. In quel periodo avevamo la foto di Leoluca Bagarella, ma non sapevamo che fosse Leoluca Bagarella. Ma il ritrovamento del covo nell’appartamento di via Pecori Giraldi, nel quale rinvenimmo lupare, 357 Magnum, vagonate di munizioni, documenti falsi, oltre ad otto sacchetti contenenti mezzo chilo di eroina ciascuno, era stato, per Giuliano prima di tutti, illuminante, gli aveva permesso di chiudere un cerchio: erano i corleonesi, quelli che davano l’attacco alla città. E quella mattina mi disse: “ecco chi è!!” e mi mostrò la foto di Leoluca Bagarella. Dopodiché mi augurò buone ferie, visto che ero in partenza per la Puglia, dove sono nato. Il 21 luglio, quindi, ero a Pulsano, in provincia di Taranto. Quella mattina andai al mare, stavo facendo il bagno quando arrivò di corsa sulla spiaggia mio fratello. Avevano telefonato da Palermo. Presi un aereo e, in serata, arrivai in città. Non rimasi a Palermo a lungo perchè andai a Milano. Ancora indagini sui palermitani e nacque quella che è diventata famosa come “pizza connection” con indagini relative ai Cuntrera, ai Capuana, ai Buono e a molti altri, in generale su quella costola dei corleonesi che si erano trasferiti a Milano, da tempo oramai territorio di Luciano Leggio. E fu in quel periodo che capii ancora meglio le intuizioni di Giuliano. Quel luglio del 1979 vede morire Giuliano e, pochi giorni prima, l’avvocato Ambrosoli, che aveva ricevuto l’incarico di guidare la Banca Privata di Sindona.

Io non so se Giuliano e Ambrosoli si siano o meno incontrati, sentiti. So però che le indagini di Giuliano miravano verso il gruppo criminale di Cosa Nostra americana, quella implicata nel traffico degli stupefacenti e nel riciclaggio del denaro, con la complicità di banche e banchieri compiacenti. Voglio dire che, quando avviammo le indagini relative al finto sequestro di Sindona, noi conoscevamo già i Gambino, gli Inzerillo, gli Spatola, e sapevamo già che erano collegati direttamente con i corleonesi di Riina.

La Squadra Mobile ha continuato il suo lavoro di indagine su Giuliano e lo ha fatto fino a quando non è riuscita ad arrestare e a far condannare i colpevoli: sentivamo che c’era chi aspettava da noi delle risposte: la moglie, Maria, e i figli, Alessandro Emanuela e Selima. Per noi è stato onorare la memoria del nostro capo soprattutto nel momento in cui si era davvero cominciato a lavorare come una vera squadra, senza personalismi, primi della classe, con la massima coesione. Lo logica della squadra che poi perpetuò Giovanni Falcone.

 

Giuseppe Crimi

Sono arrivato a Palermo nel sessantanove, quando Giuliano era già operativo alla squadra Mobile e dirigeva la sezione Omicidi. Il 21 luglio del 1979, verso le otto del mattino, stavo uscendo da casa, e alla radio ho sentito questa tragica notizia. L’emozione di quel momento è indescrivibile. Il dispiacere provato per la perdita di quell’amico, la rabbia per le mille cose che avevano portato anche a quell’evento…fu un momento molto difficile, e l’unica cosa che sapevamo essere in grado di fare, era iniziare subito delle indagini, andare con l’occhio del poliziotto sul luogo e fare, anche per lui, per Boris, un sopralluogo. Fu un compito molto penoso fare i poliziotti, in quell’occasione.

Non abbiamo fatto entrare i fotografi quella mattina, per la prima volta abbiamo completamente allontanato dalle scena del crimine quelli che invece erano stati i nostri amici di sempre. Li abbiamo allontanati perché eravamo troppo presi dal punto di vista emotivo, dalla tragedia che ci aveva colpito nell’intimo, nel cuore, e quindi abbiamo voluto mantenere una certa riservatezza, che probabilmente anche lui avrebbe voluto, anche se lui era il funzionario più aperto di tutti, verso la stampa, verso la comunicazione, anche verso i criminali tanto che sapeva accattivarsi la simpatia anche dai criminali con il suo fare, trovando sempre la cosa giusta da dire.

Quella mattina, dicevo, siamo andati lì, e nonostante il momento difficile per noi dal punto di vista affettivo più che altro, abbiamo fatto quello che era necessario fare, abbiamo iniziato le indagini e abbiamo visto subito quanto fossero difficili e problematiche, ma non ci siamo  più fermati, da quel momento, fino a quando non siamo riusciti a capire, ma anche ad identificare i responsabili. Quello fu il momento più difficile non solo per me, ma per tutti i colleghi della squadra Mobile, anche perché tra di noi c’era una solidarietà totale un affetto immenso per Boris Giuliano, affetto che andava al di là e al di sopra del rapporto ufficiale. Giuliano era un capo che tutti avrebbero voluto, perché era un capo ed era anche un amico, era anche un compagno. Con lui si scherzava, era molto ironico, era una persona intelligente alla quale si poteva chiedere un consiglio o un parere riguardo ad un fatto, un evento qualunque.

Quando è arrivato lui è cambiato registro. Era già cambiato molto con Bruno Contrada a capo della Mobile prima di Giuliano. Entrambi avevano un’apertura mentale e una disponibilità nei confronti dei colleghi e degli uomini che era naturale e istintiva. Questa atmosfera giovava molto alle indagini, al rapporto tra noi colleghi e sottoposti, giovava molto a tirare avanti perché quella era una vita particolarmente difficile e Giuliano, grazie al suo modo di essere, al suo carattere, alla sua cordialità era unico e insostituibile. Era il tipico investigatore intelligente e che sapeva guardare al di là della notizia, dell’informazione, del fatto, e quindi coglieva subito le tracce e le vie da seguire. Era un eccellente investigatore.

Lui ricordava sempre le esperienze lavorative precedenti, e le ricordava non con nostalgia, ma direi quasi con goliardia, perché sapeva che quello non era stato il suo vero lavoro. Il suo vero lavoro era quello di poliziotto, e infatti si sentiva arrivato nel porto giusto. Ricordava le vecchie esperienze lavorative come avventure precedenti, che sicuramente l’avevano arricchito. Lui era addirittura andato a lavorare a Londra, aveva imparato l’inglese, aveva fatto mille cose, già da ragazzo era un avventuriero, giocava a basket, organizzava le squadre per giocare contro gli americani che stavano con le navi d’istanza a Messina.

Non era necessario andare fuori dell’ufficio per percepire la sua umanità, la sua generosità, la sua amicizia, perché questa la si percepiva anche nei rapporti normali di tutti i giorni, la si percepiva anche in ufficio. La sua umanità, la sua generosità, i suoi sentimenti, il suo essere uomo, il suo essere padre di famiglia, questo lo percepivamo tutti i giorni in ufficio perché vivevamo assieme giornate lunghissime di lavoro in cui potevano esserci anche lunghi tempi di stasi, di pausa. In questi momenti si entrava proprio in contatto diretto con l’uomo, in fondo eravamo un pugno di amici.

Avrei voluto dirgli mille cose, per la  verità, come accade quando se ne va una persona molto cara, molto vicina, ma esattamente non so, niente di specifico. Ora, a distanza di tempo penso che, sapendo che ci avrebbe lasciato, avrei voluto ringraziarlo, manifestargli la mia gratitudine per la sua amicizia, per quello che mi aveva insegnato.

 

Renato Gentile

Sono arrivato a Palermo nel 1975. Lavorare con Giuliano era un’esperienza brillante. Ero davvero entusiasta. All’epoca c’erano migliaia di rapine al giorno. Si sparava in continuazione, e la polizia era sempre pronta. La sera, ricordo che Giuliano utilizzava le pattuglie. Uscivamo tutte le sere, non si andava a casa, si usciva in pattuglia, per pedinamenti, appostamenti, poi andavamo a mangiare la pizza insieme. Era una grande famiglia. Pollo e patatine o pizza nella stanza della sezione omicidi. Spesso si mangiava lì. Arrivava la pizza e si mangiava lì.

Io ero alle volanti e il dott. Boncoraglio era il capo. Io abitavo in via Sciuti e quella mattina, avevo la macchina il dotazione, la 29. Scesi da casa, e con l’autista ci apprestammo a prendere un caffè al bar di fronte. All’improvviso, uscendo dall’auto, sentimmo una nota radio che comunicava di una sparatoria al bar lux. Il bar lux era li vicino, davvero dietro l’angolo. Pensai pure che ci abitava il dottor Giuliano, e andammo di corsa.

Ci siamo seduti in macchina, io e l’autista, e nel giro di un secondo, a sirene spiegate siamo arrivai sul posto. La prima cosa che ho fatto, lo ricordo benissimo, è stata quella di alzare gli occhi verso il palazzo lì di fronte, al terzo piano, dove abitava Giuliano, e mi chiesi come mai non fosse ancora sceso.

Nel frattempo mi accingo ad entrare nel bar per rendermi conto di cosa fosse successo, e il barista esce, con le mani in testa, sconvolto e urlando: “l’hanno ammazzato l’hanno ammazzato”. Entro, allora, nel bar e trovo a terra, vicino la cassa, Giuliano. Non capii più niente.

Era ancora vivo. Gridai all’autista di salire con la macchina sul marciapiede. Volevo portarlo subito via di lì. In ospedale.

Lo presi tra le braccia, ed era ancora vivo. Lui mi guardò pieno di sangue e mi morì sul braccio destro.

Testimonianze raccolte durante la realizzazione del docu-film “Sopralluoghi per un film su un poliziotto ucciso” – Palermo 2009

 

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CAT: Giustizia

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