La corte costituzionale boccia l’ergastolo ostativo. E ora?

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16 Aprile 2021

L’ordinanza con la quale la Consulta ha sollevato la questione della compatibilità dell’ergastolo c.d. “ostativo” con l’ordinamento costituzionale, nonché con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, concedendo un anno di tempo al parlamento per adeguare la nostra legislazione, non giunge inaspettata ma è l’ultimo passo di un percorso giuridico che ha coinvolto non solo il nostro giudice delle leggi, ma la stessa Cedu, investita della medesima questione (sotto diverso profilo) alcuni anni fa.

Per chi non conosce la materia, occorre premettere che il nostro ordinamento, conformemente al dettato dell’art. 27 della costituzione per il quale le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, prevede in via ordinaria la possibilità per chi sia stato condannato all’ergastolo di accedere alla “liberazione condizionale” dopo aver scontato 26 anni di pena.
L’ammissione al beneficio è consentita in favore di coloro che nel corso dell’espiazione abbiamo mostrato un sicuro ravvedimento e abbiamo provveduto ad adempiere le obbligazioni civili nascenti dal reato, e la valutazione di tali presupposti è demandata ai tribunali di sorveglianza.
Con il provvedimento, il condannato è tenuto a osservare determinate prescrizioni e se non rispetta tali prescrizioni, ovvero commette un ulteriore delitto, si vede immediatamento revocare il beneficio.
Decorsi cinque anni senza che sia intervenuta alcuna causa di revoca, la pena è estinta e il condannato riacquista la libertà.

Questo è il regime a cui sono ordinariamente soggetti i condannati all’ergastolo: tuttavia, l’ordinamento penitenziario, all’art. 4-bis, pone una specifica preclusione nei confronti di coloro che siano stati condannati per fatti di mafia o di terrorismo, prevedendo che la loro unica possibilità per accedere ai benefici carcerari ordinariamente previsti per gli altri detenuti consista nel diventare “collaboratori di giustizia” ovvero, nel linguaggio comune, “pentiti”.
Non è sufficiente allontanarsi dall’organizzazione criminale alla quale appartevano, recidere ogni contatto, dimostrare di essere una persona diversa da quale entrata in carcere molti anni prima, ma occorre una condotta attiva per contribuire a smantellarla.
Si tratta di una presunzione assoluta di pericolosità che, alla luce di vari rilievi fatti propri sia dalla Cedu che dalla nostra Corte Costituzionale, non appare conforme ai principi di ragionevolezza, equità e umanità del trattamento penale contenuti nella nostra Carta.

Se l’aver offerto la propria “collaborazione” rappresenta un dato importante a conferma della volontà della persona di tagliare i ponti con il proprio passato criminale (anche se, a questo proposito, vi sono stati diversi episodi in cui i “pentiti” anziché fornire elementi utili a contrastare le propria “famiglia criminale” si sono limitati ad accusare la “famiglia” rivale, continuando di fatto a servire la propria organizzazione), nondimeno esistono casi in cui dal detenuto, vuoi per la lontananza nel tempo dei fatti ai quali ha preso parte, vuoi per il ruolo secondario avuto nell’organizzazione, vuoi per la volontà di non esporre i propri congiuti a ritorsioni trasversali, non è esigibile un comportamento di “collaborazione attiva”. In questo caso, appare logico, pur con la necesaria rigorosità suggerita dal passato criminale della persona, valutarne il percorso nel suo complesso per decidere se meriti o meno la concessione dei benefici previsti per gli altri detenuti.

Come rilevato dalla Corte EDU già nel 2017 (caso Viola) non è ammissibile una presunzione assoluta di pericolosità, che impedisca al detenuto di dimostrare altrimenti, attraverso il percorso carcerario e i suoi comportamenti successivi alla condanna, il proprio ravvedimento e il proprio distacco dall’organizzazione criminale della quale faceva parte.
Con la citata sentenza, la Corte EDU ha ritenuto contrario al senso di umanità privare il condannato di una qualsiasi prospettiva di riesame della propria condizione carceraria e di una obbiettiva valutazione del proprio percorso di recupero sociale (si vedano a questo proposito i paragrafi 125-128), di fatto aprendo la strada a una sostanziale revisione dell’istituto.

Date queste premesse, era inevitale che la Corte Costituzionale, a sua volta investita della questione, prendesse atto della incompatibilità dell’attuale articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario con la nostra Carta e gli stessi trattati ai quali l’Italia aderisce.
La Consulta, tuttavia, pur dichiarando esplicitamente l’incostituzionalità dell’attuale formulazione (qui il comunicato stampa della Corte), ha adottato una soluzione “prudente” concedendo al legislatore un anno di tempo per individuare soluzioni che preservino il valore della collaborazione nella lotta alla criminalità organizzata e, al tempo stesso, non contrastino con i principi sopra richiamati.

Cosa possiamo aspettarci dopo la pronuncia interlocutoria della Corte Costituzionale? Le dichiarazioni rilasciate “a caldo” dai più rappresentativi leader politici non inducono a ottimismo: c’è chi ha commentato, con felice espressione, che chiedere a questo parlamento di legiferare in senso conforme ai principi di umanità e ragionevolezza imposti dalla nostra costituzione è come chiedere a una tribù di cannibali di predisporre una dieta vegana. La stessa narrazione dei media, incline a bollare come “cedimento” alla mafia qualunque modifica legislativa che riporti entro l’alveo costituzionale l’attuale normativa, non fornisce certo un terreno favorevole per chi intenda dar seguito alle indicazioni del giudice delle leggi.

Molto probabilmente, vedremo approvare delle riforme che andranno in senso esattamente contrario a quanto sarebbe auspicabile, e la “palla” tornerà fra un anno nel campo della corte costituzionale, chiamata a prendersi una importante responsabilità nei confronti di un’opinione pubblica male informata e condizionata da una narrazione tossica.
Come al solito, la nostra classe politica, anziché dimostrarsi all’altezza del compito ad essa demandato, preferirà scaricare le proprie responsabilità e ragionare in termini di propaganda invece che di efficacia nella lotta alla criminalità organizzata (vi diranno, ad esempio, che l’abolizione dell’ergastolo ostativo farà uscire di cella i mafiosi che hanno sciolto nell’acido i bambini, tacendovi il fatto che, al contrario, è l’attuale legislazione sui “pentiti” che farà uscire di cella Giovanni Brusca, l’assassino di Falcone e del piccolo Giuseppe Di Matteo già nel 2022). Potrà mai uscirne qualcosa di buono? Improbabile, ma staremo a vedere.

TAG: CEDU, corte costituzionale, ergastolo ostativo
CAT: Giustizia

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