Tre è il numero perfetto

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20 Agosto 2017

Il processo per i crimini del gruppo terroristico neonazista autoproclamatosi “Clandestinità nazionalsocialista” (NSU) avviato da oltre 4 anni a Monaco di Baviera attraversa ormai la sua quinta pausa estiva. Dalla 375ma udienza martedì 25 luglio, alle 12:02 l’accusa ha però finalmente potuto iniziare ad esporre le sue conclusioni. I giudici hanno prima dovuto ribadire la loro risoluzione di non registrare l’esposizione dei procuratori in qualsiasi forma, così come di non obbligare questi ultimi a dare copia del loro dattiloscritto alle difese.

 

Delle 22 ore preannunciate per tirare i capi di tutta l’istruttoria la Procura finora ne ha coperto suppergiù solo la metà. Fino alle prossime due udienze, fissate per obbligo di legge in mezzo al periodo festivo perché un processo penale non può essere interrotto più di 4 settimane di fila, e probabilmente ancora alla ripresa a pieno ritmo il 12 settembre, non formulerà le richieste di pena.

 

Il quadro però è già delineato: per il Procuratore Generale Herbert Diemer il dibattimento ha completamente confermato le tesi accusatorie ed adempiuto pienamente a chiarire le responsabilità dei 5 accusati. Lo NSU è stato un gruppo terroristico come dai tempi delle RAF la Germania non aveva più dovuto affrontare. L’unica sopravvissuta del nucleo estremistico Beate Zschäpe ed i fiancheggiatori del gruppo, Ralf Wohlleben, Holger Gerlach, André Eminger e Carsten S. siedono tutti ai banchi degli imputati. Gli assassinati Enver Şimşek, Abdurrahim Özüdoğru, Süleyman Taşköprü, Habil Kılıç, Mehmet Turgut, İsmail Yaşar, Theodorus Boulgarides, Mehmet Kubaşık, Halit Yozgat sono stati scelti arbitrariamente e <giustiziati> da Beate Zschäpe ed i suoi due complici deceduti Uwe Mundlos ed Uwe Böhnhardt per la loro origine straniera. La poliziotta Michèle Kiesewetter <doveva morire come rappresentante della polizia fortemente odiata>. Il gruppo era animato esclusivamente dall’ideologia antisemita e razzista nazista.

 

 

Una cellula terroristica ha almeno tre membri
La Procuratrice Anette Greger ha steso un quadro impietoso di Beate Zschäpe, classe ’75, abbandonata dal padre rumeno e cresciuta più dalla nonna che dalla madre, con la quale non ha avuto un buon rapporto. Beate Zschäpe, ex giardiniera diplomata, ha ascoltato le accuse con freddezza.

 

Per l’accusa è pienamente colpevole, parte integrante e paritetica nel gruppo terroristico neonazista, responsabile della logistica, nel procurare documenti di identità e tessere telefoniche, tesoriera, documentatrice dei crimini e copertura della facciata di Uwe Mundlos ed Uwe Böhnhardt, gli esecutori materiali di 10 omicidi, 15 rapine ed almeno 2 attentati. Un terzo non presente nel rinvio a giudizio non fa parte delle accuse. È stato messo in luce solo nel processo perché ne ha riferito il coimputato Carsten S. narrando che Uwe Mundlos ed Uwe Böhnhardt se ne vantarono con lui, ma appena si avvicinò Beate Zschäpe si tacitarono. Per la Procura un segno in più che ella fosse in grado di incutere timore nei compagni. Per la difesa, durante il processo, invece prova che ella non fosse tenuta da loro in conto.

 

Beate Zschäpe nel dibattimento si è infatti dipinta come succube ed ignara degli omicidi di cui avrebbe saputo a posteriori solo in un paio di occasioni rimanendone sconvolta. Ha ammesso solo di avere fruito del denaro delle rapine perché non aveva altre entrate e di avere dato fuoco all’ultimo covo ed inviato i dvd di rivendicazione, senza però conoscerli, come esecuzione delle ultime volontà dei compagni. Tutt’altro quadro è emerso dai fatti elencati dalla Procuratrice: dalle foto allegre di tutti e tre in vacanza, alle testimonianze di come i tre fossero un team affiatato e Beate Zschäpe abbia funto da mamma per i due compagni che, come in realtà ha indicato ella stessa all’arresto, erano la sua famiglia e non le hanno imposto nulla. <Beate Zschäpe ha scelto liberamente e coscientemente per la vita in clandestinità e si è decisa per la via del terrore> questo intendeva dicendo che non le è stato imposto nulla ha sottolineato l’accusa. Non c’è mai stato dissenso nel gruppo ha rimarcato Anette Greger. Quasi tutti i testimoni, comprese le parole della madre innanzi alla polizia, hanno dipinto Beate Zschäpe come donna forte e capace di dire la sua. Quanto fosse sicura di sé d’altronde lo ha dimostrato anche in aula arrivando ad imporre l’ordine in cui dovessero sedere i suoi tre avvocati difensori originari dopo che ha tolto loro la fiducia e facendo retrocedere di una fila il coimputato André Eminger.

 

Per la procuratrice Greger, Beate Zschäpe era al corrente di tutto prima di ogni crimine commesso da Uwe Mundlos ed Uwe Böhnhardt ed era coinvolta nelle meticolose operazioni di preparazione. Tutti e tre avevano infatti accesso ai due computer invenuti nell’ultimo covo e di questi quello principale, privo di password, era nella stazione di lavoro proprio sotto il suo letto. Gli inquirenti hanno potuto ricostruire le ricerche compiute con l’elaboratore e raffrontarle con il materiale cartografico recuperato tra i resti dell’incendio e ricostruire le modalità usate dal gruppo per diversi crimini. Per la pubblica accusa Beate Zschäpe era sempre in grado di contattare i due compagni. Nei resti dell’ultimo covo è stato trovato un biglietto con la dicitura “azione” come anche sui pc loro chiamavano in codice omicidi ed attentati, con il numero di Uwe Mundlos. Beate Zschäpe lo chiamò a Monaco da una cabina telefonica sotto casa, come hanno evidenziato i tabulati dei ponti telefonici, più o meno in concomitanza con l’omicidio del fabbro di origini greche Theodoros Boulgarides.

 

Ricostruendo un quadro d’insieme attraverso tutte le singole testimonianze e le risultanze probatorie per la Procura l’imputata ed i defunti compagni avevano sposato fin prima di scendere in clandestinità l’ideologia nazionalsocialista. Non solo Uwe Mundlos ed Uwe Böhnhardt non ne avevano fatto mai mistero andando in giro con divise simili a quelle della SA, ma la stessa Beate Zschäpe avrebbe condiviso con loro appieno l’ideologia razzista e violenta e, nonostante una scialba dichiarazione in aula, non se ne sarebbe mai distanziata. Se effettivamente non avesse condiviso l’ideologia omicida dei suoi compagni, non si chiarisce perché si sia rifiutata di rispondere alle domande dei legali di parte civile. Nelle discussioni tutti e tre erano per la linea dura e per cambiare lo Stato con l’uso della forza. Con i due Uwe ha partecipato a confezionare il gioco antisemita Pogromly. Nel dicembre ’95 e nel novembre ’96 era stata fermata armata, ed armi sono state trovate anche nella sua prima casa. Chiamava la sua pistola ad aria compressa “Wally”. Ha coscientemente preso parte ad appendere un manichino con una stella di Davide ed una finta bomba sul percorso lungo il quale doveva passare il convoglio dell’allora Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche tedesche Ignatz Bubis. Ha partecipato all’invio di lettere minatorie con polvere nera a sedi di polizia e giornali. Ha contribuito alla formazione di un elenco delle targhe delle auto civili della polizia. Ha affittato il garage dove il gruppo stava fabbricando 5 bombe (una pronta e quattro in costruzione) e sono stati anche trovati una poesia di Mundlos pesantemente razzista e diversi altri scritti di estrema destra. Ha poi scientemente frenato gli uomini dallo scappare in Sud Africa.

 

Quando è stata arrestata le venne chiesto se ci fossero ancora ordigni in giro e lei lo aveva escluso. Segno, anche questo, per la Procura che fosse sempre stata al corrente di tutti i piani del gruppo. E fino alla fine ne ha condotto il disegno. Ha preferito lasciare i suoi gatti per strada per poter inviare i dvd di rivendicazione che documentavano gli omicidi e gli attentati. Ha fatto esplodere, incurante della vita degli altri, l’ultimo covo a Zwickau, così come i suoi complici appiccarono il fuoco al loro camper. Così come descritto nei “Diari di Turner” se si era sul punto di essere presi si doveva distruggere la centrale di comando. Nel dibattimento Beate Zschäpe ha invece sostenuto di avere avuto cura di non fare danno a terzi e di non avere voluto l’esplosione ma solo l’incendio dell’appartamento.

 

Anette Greger in piedi da un podio da conferenziere rivolta verso i giudici e l’imputata non ha però avuto toni lievi: i tre hanno costituito una cellula, secondo i dettami dello stesso pamphlet di guida alla guerriglia, si intendevano come nazionalisti impegnati nella resistenza contro i nemici del popolo tedesco, tre agenti che si dividevano i ruoli e che usavano degli alias anche tra di loro. Evitavano i contatti anche con la scena di destra, ha affermato il magistrato. Solo nel 2002 due lettere dello NSU con donazioni pervennero a riviste dello spettro neonazista, ma non facevano nessuna rivendicazione diretta degli omicidi. Secondo il motto “fatti anziché parole” che però, dall’uso della stessa arma, dovevano essere percepiti come esecuzioni. Dovevano scatenare la diffidenza verso le autorità ed al contempo rendere insicuri i familiari per spingerli ad andarsene, così come altri a non emigrare in Germania. Ragioni reali evidenziate solo nel dvd di rivendicazione finale: la lotta armata fino al cambiamento della politica.

 

<I tre erano come una persona sola … un’assoluta fiducia reciproca li fondeva tra loro>. Beate Zschäpe procurava le SIM ed i cellulari ed ha partecipato attivamente a gestire le finanze del gruppo, come è emerso dalle testimonianze concordi di campeggiatori che avevano conosciuto in vacanza; Uwe Böhnhardt noleggiava i mezzi di locomozione e con Uwe Mundlos si occupava di procurare armi e munizioni. Per la procuratrice Greger tutta la logistica per le loro “azioni” era negli appartamenti in cui hanno abitato sotto falso nome. Le armi ed il bottino e -contrariamente a quanto ha sostenuto Beate Zschäpe- anche le stanze erano aperte a tutti e tre.

 

La Procuratrice Anette Greger nel terzo giorno dedicato alla sua esposizione ha ripercorso nei dettagli tutti gli omicidi e gli attentati del gruppo. Ricordato come le vittime sono state giustiziate con colpi sparati in faccia a breve distanza. E nel silenzio dell’uditorio ricostruisce l’omicidio di ciascuna vittima. Emblematico per tutti quello del fruttivendolo Habil Kiliç ammazzato il 29 agosto 2001 a Monaco, anche se aveva il negozio a poche decine di metri di distanza da una centrale della polizia stradale. <Habil Kiliç fu colpito con un proiettile che gli ha attraversato il capo e si abbassò dietro la teca. Gli assassini gli spararono di nuovo da dietro alla nuca. Morì per paresi del sistema centrale, soffocando col suo sangue.>. Le vittime in realtà non erano neanche tutte straniere: Halit Yozgat ad esempio, l’ultimo ad essere ucciso con la stessa pistola Česká 83 con silenziatore, era nato in Germania. Gli assassini fotografavano i moribondi per montare poi le immagini nel dvd con la dicitura “originale”. Mentre l’accusa sciorinava dettagli sui morti Beate Zschäpe ha ascoltato per la maggior parte del tempo con occhi chiusi e le mani in grembo, come concentrata a lasciare scorrere tutto sopra di sé, senza mostrare emozioni.

 

Per la Procura ella ha preso parte attiva anche nella produzione dei video di rivendicazione: lo dimostra una scommessa per 200 tagli di clip video condotta tra “Liese“ (Zschäpe), “Killer“ e “Cleaner“ (Mundlos e Böhnhardt) ed il rinvenimento di una vera e propria scaletta su come farli con gli apparecchi in dotazione al gruppo. La Procura, richiamandosi anche alle ricerche dell’avvocato di parte civile Hardy Langer, ha sconfessato la tesi difensiva di Beate Zschäpe che si trattasse di rimuovere la pubblicità da serie televisive.

 

La Procuratrice Greger è entrata anche nei particolari della costruzione degli ordigni esplosivi e della loro potenza. Delle operazioni chirurgiche e dei segni che portano ancora oggi addosso Masha Malayeri, Sandro D’Alauro e tutti gli altri che solo miracolosamente non hanno perso la vita negli attentati e per i quali al gruppo sono addebitati oltre 20 tentati omicidi. Per l’accusa Beate Zschäpe condivideva l’interesse che tutte le “azioni” fossero portate a termine. <Rendeva i due uomini non appariscenti. Profondamente e strettamente legata, decisiva ed al contempo integrativa, il suo ruolo non è da sottovalutare>. Tanto condivideva le attività del gruppo che dopo aver appreso che Uwe Mundlos ed Uwe Böhnahrdt erano morti anziché <tirare una riga … nonostante l’amore per i suoi gatti ha trovato più importante inviare 16 DVD … ha spedito i video con le foto dei morti al Consolato Generale Turco, alla Moschea Ali Paşa di Amburgo ed all’ente culturale turco-tedesco …>.

 

Per il diritto tedesco per la piena complicità è sufficiente avere un ruolo integrante nel gruppo anche senza essere materialmente partecipe ai crimini. In effetti degli obiettivi elencati in una lista trovata nei resti dell’ultimo covo, solo vicino alla sinagoga di Rykestrasse a Berlino è stata vista anche Beate Zschäpe. Per la Procura il gruppo aveva quindi deciso che lei fosse troppo appariscente e non dovesse più prendere parte all’osservazione sul campo degli obiettivi. La Procura non si dipana nell’indicare come mai l’episodio sia però emerso nel processo solo grazie all’avvocato di parte civile Yavuz Narin e quale ruolo vi avrebbe potuto avere la probabile presenza dell’informatore della polizia criminale di Berlino Jan W.

 

 

Un silenziatore e 50 colpi per un suicida
Al quarto giorno di esposizione la parola passa al Procuratore Jochen Weingarten; questi dà pieno credito alla confessione del pentito Carsten S. –il 37enne nato a Nuova Dehli con alle spalle una carriera nella JN, il movimento giovanile del partito neonazista NPD, che ha fato coming out della sua omosessualità ed oggi lavora in un centro di assistenza- su quasi tutti gli aspetti; tranne uno fondamentale: non ha avuto il coraggio di ammettere che l’arma di 9 delitti che ha consegnato agli assassini, una Česká Zbrojovka 83 calibro da 6 a 7,65 mm, è stata ordinata fin dall’inizio con un silenziatore. Come hanno ricostruito le indagini riassunte dalla collega Anette Greger, nel DVD di rivendicazione fin dalla prima versione grezza (quella definitiva sarebbe stata la terza) “Clandestinità nazionalsocialista” aveva inserito 14 fumetti vuoti prevedendo quindi in partenza tutti gli omicidi e gli attentati. “Quattordici parole” sono quelle dello slogan “„we must secure the existence of our people and a future for White children” (“dobbiamo assicurare l’esistenza del nostro popolo ed un futuro per i figli bianchi”) coniate dall’estremista americano Davide Eden Lane, intendendovi non già la salvaguardia del popolo statunitense, che è un crogiolo di etnie, bensì nella sua visione razzista della sola razza ariana. Chi aveva un piano simile non poteva prescindere dall’acquisire un’arma con un silenziatore. Anche se in effetti prova certa che sia stato impiegato un silenziatore si è potuta raggiungere solo dal quinto omicidio, quando erano stati cambiati i proiettili, per gli inquirenti esso è stato impiegato fin dal primo assassinio.

 

Carsten S. doveva sapere che Böhnhardt e Mundlos facevano sul serio con l’arma che gli stava per dare fin dal momento in cui gli raccontarono del fallito attentato con una torcia elettrica, di cui si è già fatta menzione più sopra, tacitandosi all’arrivo di Beate Zschäpe. La loro pericolosità, ha indicato il Procuratore Weingarten, gli doveva ad ogni modo essere nota allorché il coimputato Ralf Wohlleben, appena conclusa una telefonata con Böhnhardt o Mundlos, gli riferì ridacchiando “gli idioti hanno sparato a qualcuno”. Anche se in quel caso non doveva essere entrata in gioco la Česká, bensì si doveva trattare del colpo esploso contro la parte civile F.K. in occasione di una rapina ad un supermercato della catena Edeka verso la fine del 1988 a Chemnitz, che aveva accennato ad inseguire i due rapinatori. Il colpo lo mancò per poco.

 

Accusando Carsten S. di non aver detto il vero il Procuratore evita che nella sentenza possa restare un dubbio aperto. Il vero obiettivo della sua fermezza però, si capisce da come argomenta, non è solo Carsten S. quanto piuttosto Ralf Wohlleben, l’ex consigliere comunale della NPD che ascolta attento, quasi morsicandosi le unghie della mano destra mentre tiene con la sinistra la mano alla moglie seduta al suo fianco a dargli supporto. Ralf Wohlleben, incalza Weingarten, ha sempre indicato di abiurare la violenza a fini politici ma non ha esitato a procurare l’arma con cui sarebbero poi state uccise 9 persone. Carsten S. ha riferito di averla ritirata dal negozio Madley dove l’aveva mandato Wohlleben e di avergliela portata. Nel suo studio Wohlleben avrebbe indossato dei guanti di pelle prima di montare il silenziatore. Segno per la Procura che sapeva bene per cosa sarebbe servita; anche se Wohlleben lo nega.

 

Gli investigatori hanno ricostruito con acribia tutti i passaggi dell’arma. Il Procuratore Jochen Weingarten ha ripercorso tutte le testimonianze e con metodo logico deduttivo ne ha estratto le porzioni di verità e menzogna imbastendo tutti i passaggi di proprietà dell’arma in modo stringente.

 

Nel dibattimento Wohlleben ha ammesso di aver contribuito a procurare la pistola Česká 83, ma solo perché Uwe Böhnhardt non voleva più finire in prigione, dove era già stato ed era stato sodomizzato, e voleva uccidersi in caso di arresto, ed ha negato di aver maneggiato la pistola con dei guanti. Ma la testimonianza di Carsten S. è troppo dettagliata: le richieste per avere l’arma erano ripetute, l’ordine era per una pistola e non un revolver, possibilmente con molte munizioni e di fabbricazione tedesca. Se fosse stato solo per suicidarsi perché mai avrebbe dovuto essere una pistola e non un revolver, per quale motivo ci dovevano essere tante munizioni, è notorio che un morto non può neanche sparare un secondo colpo, figurarsi 50; perché poi l’arma doveva essere di fabbricazione tedesca, nazista o meno Böhnhardt non aveva neanche un’auto tedesca, celia il Procuratore Jochen Weingarten. Un silenziatore gli era poi così importante perché al momento del suicidio avrebbe voluto garantirsi la salvaguardia del proprio e dell’altrui udito, afferma ancora sarcastico il rappresentante dell’accusa. Perché infine avrebbero dovuto insistere tutti se era solo Böhnhardt che voleva uccidersi. Ralf Wohlleben aveva indicato a Carsten S. di andare nel negozio Madley da Andreas S. sapendo che quegli avrebbe potuto procurare un’arma adatta con il silenziatore. Diede anche a Carsten S. il denaro necessario traendolo da un deposito di 10.000 marchi che aveva ricevuto. Beate Zschäpe lo rivelò a Holger Gerlach dando anche a lui 10.000 marchi, riferendogli che Wohlleben aveva già avuto lo stesso importo. Wohlleben d’altronde aveva già usato Holger Gerlach per portare loro un pacco ed infilandoglielo nella borsa. Gerlach ha testimoniato che scoprì poi, quantomeno quando i tre aprirono il pacco di fronte a lui, che era un’arma e di aver poi protestato con Wohlleben chiedendogli perché ne avessero bisogno ricevendone la risposta “che era meglio che lui non lo sapesse!”.

 

La verità ha riassunto perentorio il Procuratore Weingarten è che Ralf Wohlleben era il regista su chi dovesse parlare a chi e di che cosa e sapeva ed approvava che l’arma sarebbe servita per commettere crimini motivati ideologicamente. Ralf Wohlleben era <la mente di comando con maggiori conoscenze … che teneva tutti i fili> e come <capo dei coadiutori … già poco dopo la discesa in clandestinità di propria iniziativa cercò aiuto per i tre>. Se prima l’avvocatessa di Ralf Wohlleben, Nicole Schneiders, seguiva le parole del Procuratore con un sorrisino di sufficienza, a questo punto il suo assistito scrive tutto a pc e dedica sempre meno attenzione alla propria moglie. I diversi atti di fiancheggiamento del gruppo si sarebbero prescritti, anche l’aver fatto portare a Holger Gerlach un’arma non è più perseguibile. E forse pure l’aver usato prima Jürgen H., un altro esponente di destra escusso in aula come testimone che ha indicato che Wohlleben lo incaricò di fare pervenire ai tre fuggiaschi un pacchetto pesante che avrebbe potuto essere un’arma. Non invece il concorso in omicidio per cui non c’è prescrizione. Wohlleben è padre di famiglia: la Procura ricostruendo i nove omicidi fatti con la Česká 83 che lui ha procurato al trio ha specificato quanti anni aveva ciascuna delle vittime e le età ed i nomi di tutti gli orfani.

 

Nelle macerie dell’ultimo covo e nel camper dato alle fiamme ad Eisenach gli investigatori hanno ricostruito che il gruppo aveva 20 armi (11 pezzi uguali a quelli rinvenuti semibruciati furono sciorinati davanti ai giudici in aula): 2 mitragliette, 2 fucili a ripetizione, 12 rivoltelle e pistole, 3 armi ad aria compressa e nascosta in cantina una mitraglietta con puntatore laser per poter sparare nella folla da distanza. Una riserva di 1.600 munizioni, nonché 2,5 chili di povere nera.

 

 

Una squadra di serie A sa quadrare un cerchio
Il processo riguarda solo le responsabilità dei 5 imputati e la Procura Generale ha conseguentemente evitato che fosse dato coro alle reiterate istanze rivolte ad individuare altri sospetti. Il Procuratore Herbert Diemer ha anche sottolineato che compito di un processo è distinguere i fatti dalle teorie, <ronzii nelle orecchie> idonei a rendere insicura l’opinione pubblica, mentre non sono emerse prove a sostegno di responsabilità penali nei confronti degli inquirenti. Noncurante che molti dubbi sono stati dibattuti in una dozzina di commissioni parlamentari di inchiesta. In ciò trova conferma un’ineludibile differenza rispetto alle posizioni delle parti civili che si sono sforzate tenacemente di raggiungere una più ampia ricostruzione della rete di estrema destra tra Jena, Chemnitz e Zwickau e ritengono che si debbano cercare ancora altri responsabili. Anzi per quadrare il cerchio e ribadire che i colpevoli sono tutti alla sbarra, la procuratrice Greger ha sottolineato che <contrariamente a quanto taluni avvocati di parte civile hanno promesso ai loro clienti, non esistono altri complici>. Una tesi controvertibile stante che nel suo DVD lo NSU rivendica di essere una “rete di camerati”. Per la procura il trio pianificava molto bene le sue azioni, eseguendo perlustrazioni nelle diverse città, facendo foto sul posto e dotandosi di materiale cartografico. Nei resti dell’incendio dell’ultimo covo di Zwickau sono state rinvenute carte delle città degli omicidi con diverse tacche e molte altre annotazioni sui possibili obiettivi, anche se non sono sempre stati colpiti i punti segnati ma altri vicini. Certo, per quanto le pile di carta in realtà brucino peggio di quanto si pensi, non è stata recuperata che una piccola parte di tutti i documenti dati alle fiamme e non è escluso che ci fossero annotazioni degli assassini su ciascuna delle loro vittime, ma per gli avvocati di parte civile non è plausibile che il trio agisse da solo senza appoggi locali.

 

Gli uomini della pubblica accusa hanno dato prova di essere tutti giuristi di serie A, per usare una definizione usata da Gisela Friedrichsen per la Die Welt/N24, e l’accusa ha ragione nell’affermare che prove che le vittime siano state scelte grazie ad osservatori sul posto in più di 4 anni di dibattimento non sono emerse; ma le parti civili indicano veementemente che non se ne sono quantomeno saputi individuare gli indizi. L’esistenza dello NSU è emersa il 4 novembre 2011, ma già nel marzo 2002 nel numero 18 della fanzine neonazista Der Weisse Wolf comparve l’annuncio <Grazie mille al NSU, ha portato i suoi frutti ;-) La lotta continua>. Come una beatificazione. Mentre nel 1999 il duo Eichenlaub cantava una struggente ballata sui due Uwe dall’emblematico titolo Ihr hattet wohl keine andere Wahl (non avevate altra scelta) e le parole Der Kampf geht weiter, für unser deutsches Vaterland (la lotta continua per la nostra Patria tedesca). Od ancora nel 2010 la band Gigi & Stadt Musikanten pubblicava il CD Adolf Hitler lebt (AH vive) con il motivo Die Döner Killer in chiara apologia degli omicidi.

 

La procura si è arroccata sulla tesi di soli 3 terroristi, ha tuttavia ripreso nella sua requisitoria più d’una risultanza emersa grazie ai legali di parti civili. Nella formulazione giudicata troppo rotonda della cerchia dei colpevoli, uno di essi legge una dimostrazione che la Procura Generale agisce come un organo politico sorvolando sulle corresponsabilità dello Stato. Pur dovendo citare anche le testimonianze di Tino Brandt ed altri informatori di estrema destra che gravitavano attorno al trio, contro ogni evidenza non ha neppure ritenuto che il Thüringer Heimatschutz (Difesa della Patria della Turingia) creato da Brandt, foraggiato nelle sue attività dai servizi come informatore, sia stato l’incubatrice dello NSU. Pur senza alimentare dietrologie i dubbi sono legittimi in una vicenda in cui sono stati sistematicamente distrutti documenti, i servizi segreti non hanno collaborato con la polizia e tra loro, gli inquirenti hanno razionalmente indagato possibili legami con la mafia turca o faide familiari, ma quasi sistematicamente ignorato una pista xenofoba.

 

In effetti su 20 armi, un arsenale con mitragliette e fucili a pompa, solo di 3 gli investigatori hanno ricostruito come sono arrivate al gruppo. Risalire a tutti i passaggi di un’arma peraltro è molto difficile e la procuratrice Anette Greger indica che è stato un colpo di fortuna essere riusciti a farlo almeno per la Česká 83. Resta però anche inspiegato perché nella serie di omicidi con quell’arma ci sia stata una pausa tra l’agosto 2001 ed il febbraio 2004 e come mai la catena si sia definitivamente interrotta dopo l’omicidio il 6 aprile 2006 di Halit Yozgat a Kassel, commesso mentre nel suo internet caffè ad un computer sedeva il reclutatore per le fonti di estrema destra dei servizi segreti interni del Verfassungsschutz della Assia Andreas Temme.

 

La Procura ha invero ancora aperte indagini nei confronti di altri 9 sospetti coadiutori del gruppo terroristico, ma la stessa procuratrice Greger non nasconde che è improbabile che saranno avviati altri procedimenti perché molti reati si sono prescritti. Gli investigati sono André K. (già membro della Kameradschaft Jena e del Thüringer Heimatschutz), Thomas M. nato S. (già componente di Blood & Honour, che trovò alloggio ai tre ed è stato informatore della polizia di Berlino) Jan B. W. (membro di punta di Blood & Honour in Sassonia), Mathias D. (locatore principale di appartamenti occupati dai tre membri dello NSU), Mandy S. (anch’ella ha aiutato i tre a trovare rifugio), Susann E. (moglie dell’imputato André), Max-Florian B. (ha dato il passaporto usato da Mundlos), Hermann S. e Pierre J. (hanno fornito ciascuno un’arma). Fuori dalle indagini peraltro gli ex informatori dei servizi Ralf M. e Tino Brandt (il primo potrebbe avere dato lavoro a Mundlos mentre egli era in clandestinità ed ora vive in Svizzera, il secondo è in carcere per pedofilia). Sussisterebbe poi anche un fascicolo generale d’inchiesta “NSU/sconosciuti” che accoglierebbe tutte le altre tracce, indizi e testi emersi.

 

L’unica cosa certa -mi ha ripetuto con fervore fuori dal Tribunale la rappresentante dell’accusa- è che Beate Zschäpe avrebbe il <dovere morale> di dire come sono state scelte le vittime. Dopo 765 testimonianze, 51 perizie, 279 udienze, svariate istanze probatorie promosse dai più attivi tra i circa 60 avvocati di parte civile ed oltre 60 milioni di Euro di costi processuali, non si sa ancora nulla oltre al fatto che lo NSU ha colpito chi si era già inserito nel tessuto sociale tedesco ed aveva dei genitori di origine straniera.

 

La Procura Generale deve ancora formulare le proprie conclusioni sulle responsabilità di Holger Gerlach, che per primo con Wohlleben tenne i contatti col trio in clandestinità, fornendo loro anche diversi documenti, ed ha reso una confessione parziale, e su quelle di André Eminger, il neonazista con tatuata sull’addome una testa di morto e la dicitura in inglese “muori ebreo muori” ed in casa una foto dei deceduti Uwe Mundlos ed Uwe Böhnhardt con una dedica alla loro imperitura memoria, che ha aiutato fino all’ultimo Beate Zschäpe, dandole abiti puliti dopo che aveva fatto esplodere il covo di Zwickau poi accompagnandola alla stazione. È l’unico imputato a non avere mai aperto bocca sulle accuse e nel corso del processo ha aggiunto alla rosa dei suoi tatuaggi ispirati al Terzo Reich anche un teschio sul dorso della mano. Entrambi sono a piede libero, in aula Gerlach ha alternato la redazione di un proprio diario alla lettura dell’I-Pad; Eminger ha sempre avuto a disposizione un proprio pc e cellulare e nei primi 3 anni e mezzo ha frequentemente indossato felpe con indicazioni indirettamente riconducibili all’ideologia e gruppi musicali di destra. I Procuratori dovranno poi ancora ripercorrere le 15 rapine ed infine formulare le richieste di pena.

 

Le spore della xenofobia
La Germania ha fatto piena revisione storica sul suo passato nazista. La BBC il 14 agosto ha anche riferito come la giustizia tedesca abbia finalmente preso concretamente carico anche degli orrori della comunità schiavista tedesca fondata in Cile nel 1961 dall’ex nazista Paul Schäfer, condannando a 5 anni di carcere per violenza a minori il dottor Hartmut Hopp, in esecuzione di una sentenza cilena, già collaboratore di Schäfer. A “Villa Baviera”, la sede della comune a circa 350 km da Santiago, la polizia segreta di Pinochet aveva via libera per torturare e far sparire gli oppositori. L’attuale Presidente della Repubblica Frank-Walter Steinmeier, quale Ministro degli Esteri si era già impegnato alla desecretazione di tutti gli atti relativi alla colonia. La vicenda del gruppo “Clandestinità nazionalsocialista” nato nella Germania stessa dopo la sua riunificazione, ha lasciato il Paese talmente sgomento che si spera varrà ora quantomeno come il richiamo definitivo di una vaccinazione.

 

A smentire questo augurio è tuttavia ancora emerso che sia lo sparatore 18enne poi suicida Ali David Sonboly, il tedesco-iraniano che il 22 luglio 2016 ha causato 9 morti e 35 feriti fuori del centro commerciale olimpico di Monaco di Baviera, che pure colui che gli ha venduto l’arma attraverso la darknet, erano animati da simpatie neonaziste. Il processo al 32enne venditore della pistola Glock con 100 od addirittura 200 munizioni, Philipp Pascal K. inizierà avanti alla 12ª sezione penale del Tribunale di Monaco il 28 agosto e per ora sono fissate udienze fino al 19 settembre. Gli inquirenti sperano di poter ottenere risultanze più precise sul suo ruolo dall’analisi del server sequestrato che ha registrato i suoi traffici. Risulta che nelle chat su Wahtsapp firmasse Heil Hitler e per codificare le sue comunicazioni in rete usasse il nominativo “johnnyrico4k (Heil Hitler)“.

 

E per certi aspetti non meno grave che il Tribunale di Ebersberg abbia dovuto condannare il 10 agosto otto uomini tra i 26 ed i 36 anni che il 25 settembre 2015 rientrando da una visita all’Oktobefest hanno massacrato due cittadini di origini afghane distruggendo completamente un negozio di Döner nella locale stazione della metropolitana leggera. Tre degli autori dovranno sottostare a pene detentive da un anno e mezzo fino a 4 anni e tre mesi, altri tre invece se la sono cavata con la sospensione condizionale e due con mere sanzioni pecuniarie. Come riporta Nina Gut per il München Merkur la presidente della corte giudicante ha indicato che “non c’è da discutere, la matrice era l’odio per gli stranieri” ma, a differenza della tesi dell’accusa, “senza una profondamente radicata convinzione di estrema destra … solo insoddisfazione rivolta verso gli stranieri in modo non riflettuto e stolto … questo è il peggio. La gentaglia nella nostra società”.

 

Nella sentenza un indiretto eco del rogo di Lichtenhagen a Rostock di 25 anni fa: il 26 agosto 1992 dopo quattro giorni di assedio un branco di circa 3.000 cittadini “per bene” applaudiva estasiato impedendo l’intervento della polizia che retrocesse, mentre qualche centinaio di estremisti incendiò un immobile in cui vivevano oltre cento famiglie vietnamite di lavoratori a contratto con molti bambini piccoli. I poveretti erano asserragliati al sesto piano della casa con la facciata dai grossi girasoli, insieme a loro degli operatori sociali ed alcuni simpatizzanti di sinistra, girava anche una troupe della ZdF; scamparono solo riuscendo ad aprirsi un varco sul tetto. La più parte degli occupanti erano invece già stati evacuati dopo lo scoppio delle proteste, scatenate dal fatto che flussi costanti costringevano molti aspiranti ad un alloggio -si parla fino a 300 famiglie per lo più romene- a campeggiare fuori dal centro di accoglienza, ma alimentato ad arte dall’estrema destra facinorosa. Un ruolo ebbe, a detta dei commentatori, anche l’inefficienza dell’amministrazione che non volendo riconoscere la situazione non predispose dei sanitari portatili per gli accampati. Altri imputarono anche ad il sovra interesse dei media di avere esacerbato gli animi. Dopo il rogo furono indagate 257 persone ed a 40 si fece il processo: ne scaturirono condanne a pene pecuniarie e solo 11 a pene detentive da 7 mesi fino a 3 anni; ma per lo più con la sospensione condizionale e dovettero andare in carcere solo in 4. Dopo la riunificazione tedesca dell’ottobre 1989, in particolare dall’estate del 1991, in Germania si moltiplicarono gli attacchi xenofobi, c’erano già stati episodi gravi ad Hoyerswerda in Sassonia tra il 17 ed il 23 settembre 1991 ed a Mannheim-Schönau nel maggio 1992; fino ad arrivare ai morti di Mölln e Solingen nel novembre 1992 e maggio 1993.

 

In copertina il Procuratore Generale Herbert Diemer; foto dell’autore.

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CAT: Giustizia

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