L’odissea di Giuseppe Balsamo, che ebbe l’ardire di denunciare i suoi estorsori

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11 Ottobre 2022

Ho incontrato diverse volte Giuseppe Balsamo negli ultimi mesi. Incontro dopo incontro la mia prima impressione è sempre stata confermata. Sotto i leggeri occhiali da sole che porta avevo visto, sin dal primo istante, uno sguardo triste, anche quando il suo viso sembrava illuminarsi con un sorriso. Un uomo mite, Giuseppe Balsamo, mite e sincero. Un uomo che non parla mai a voce alta. Un uomo che porta in sé un profondo dolore, una grande amarezza e, al contempo, una grande dignità e la determinazione che ciò che non ha ricevuto gli è dovuto: giustizia. La sua colpa? Quella di avere detto no ai suoi estorsori e, proprio per questo, di essere stato abbandonato. Abbandonato da tutti, dalle associazioni che predicano, ma non praticano, tutela a chi denuncia, dalle Forze dell’Ordine e dai meccanismi perversi dello Stato. Un uomo solo, in una città silente e vittima di un desolato senso d’indifferenza a tutto ciò che non colpisce personalmente. Una città sola, che non riesce a fare i conti con se stessa. La storia di Giuseppe Balsamo è diventata, nel tempo, un’odissea, un lungo viaggio per ottenere giustizia.

Giuseppe, quando è iniziato tutto? «Tutto inizia nel giugno del 2014 quando, dopo aver chiuso una precedente attività, decisi di aprirne una di “Compro oro” in via Noce, a Palermo. Mentre stavo facendo i lavori di ristrutturazione del locale che avrebbe dovuto ospitare la mia attività, ricevetti la visita di una persona. Mi disse che alcuni suoi conoscenti l’avevano incaricato di chiedermi 3.000 euro per la cosiddetta “messa a posto”, ossia il pizzo».

Come hai reagito? «Da piazza Noce, scendendo per via Noce, arrivai al Commissariato di Polizia. Lì incontrai un ispettore del Reparto Amministrativo cui raccontai cosa mi era successo. Nello stesso pomeriggio tornai al Commissariato per un incontro con l’Anticrimine. Raccontai la mia storia e mi fu detto di aggiornarci nei giorni successivi. Mio cugino, che è un poliziotto, mi diede il numero di telefono del Commissario Lo Bue, in servizio alla Squadra Mobile. Lo contattai e, qualche giorno dopo, ebbi un incontro nel quale raccontai, in maniera dettagliata, cosa mi era successo, chi mi era venuto a cercare per la “messa a posto” e chi stava cercando di fare da mediatore con chi aveva deciso che io avrei dovuto pagare il pizzo. Nel periodo che va dalla metà di giugno alla metà di luglio ebbi, con il Commissario Lo Bue, uno scambio telefonico quasi quotidiano, in modo da tenerlo costantemente aggiornato su quello che stava succedendo».

In questo periodo, sono tornati per incassare il pizzo? «Sì. A fronte del mio silenzio nei loro confronti cominciai a ricevere, diverse volte al giorno, la visita di Salvatore Pecoraro, l’uomo che mi aveva chiesto il pizzo. Decisi di non dargli nessuno spazio di dialogo, visto che avevo informato la Polizia. Dopo qualche giorno fece venire in negozio Giulio Vassallo, un mio conoscente, per capire perché non volessi parlare con lui e perché lo stessi ignorando. Di tutto ciò, quotidianamente, tenevo informato telefonicamente il Commissario Lo Bue. Il Vassallo mi fissò un appuntamento in via Perpignano a cui mi recai. In quell’occasione il Vassallo lamentò il fatto che non dessi conto alla richiesta dello “zio Totò” (il Pecoraro, ndr) e che era “giusto e doveroso” che io lo incontrassi. Anziché andare dallo “zio Totò”, comunicai al Commissario Lo Bue quanto era successo e lui mi desse di rientrare in negozio e di stare tranquillo. Dopo qualche ora il Vassallo si presentò in negozio per chiedermi conto del fatto che non volessi incontrare il Pecoraro ed io gli dissi, per l’ennesima volta, che non ero interessato. Dopo qualche giorno il Vassallo mi contattò telefonicamente annunciandomi una visita del Pecoraro e intimandomi di farmi trovare. Lo vidi, il Pecoraro, arrivare tramite le telecamere di sorveglianza, misi il telefonino in registrazione video e, dietro la vetrina, lo ripresi mentre bussava. Dopo un po’, visto che non rispondevo, se ne andò. Qualche ora dopo il Vassallo, in compagnia di suo figlio, venne in negozio per informarsi sul buon esito dell’incontro. Io gli risposi ancora una volta che non ero interessato e lui disse, testualmente, “mò sono cazzi tua”. Dopo ognuno di questi eventi informavo il Commissario Lo Bue, che in quel momento rappresentava per me il fatto che lo Stato era al mio fianco. Il 15 luglio, ero rientrato a casa con la famiglia dopo i giochi di fuoco in onore della Santuzza, senti una sorta di bisbiglio. Capii che arrivava dall’esterno. Uscii da casa e sentii, nel terreno antistante, il rumore di lamiere mosse ma non vidi nessuno. Avvisai il commissario Lo Bue di questa possibile intrusione il quale mi disse di stare tranquillo perché stavano vigilando su me e la mia famiglia».

E arriviamo al 18 luglio… «Quella mattina, arrivando al negozio, mi resi conto che era stato messo attack nel catenaccio, per impedirmi di aprire. Ancora una volta chiami Lo Bue che mi disse di avvisare il 113 che sarebbe stato preallertato da lui. Nel frattempo chiami un fabbro e, dopo l’arrivo della Volante, mi arrivò una telefonata dal Commissario Manzella che mi informò che mi aspettava l’indomani mattina alle 10 alla Squadra Mobile».

Quindi, in questo periodo, tu eri controllato dalla Polizia? «In realtà io non ho mai visto nessuno e non ne ho mai avuto la percezione. Anzi, durante l’incontro alla Squadra Mobile, il Commissario Manzella chiamò il Commissariato Noce per informarli da quel momento la mia situazione sarebbe stata attenzionata direttamente dalla Squadra Mobile, chiedendogli di terminare la loro attività di controllo. Dopo aver raccontato la mia storia al Commissario Manzella mi viene chiesto di ritornare nel pomeriggio per formalizzare tutto».

Quindi, fino a quel momento, non era stata formalizzata nessuna denuncia… «Esatto. Nel pomeriggio del 19 luglio, mi fu chiesto di consegnare la registrazione video del Pecoraro che veniva a cercarmi. Fui accompagnato al negozio e, in quel frangente, l’ispettore Maritati incontrò un suo collega con il quale si mise a parlare della mia situazione. Dopo aver preso il materiale video rientrammo alla Squadra Mobile dove fu definita quella che credevo essere la mia denuncia».

Perché credevi? «Perché io detti per scontato che in quel momento stessi effettuando una denuncia ma, poi, mi resi conto che si trattava invece di verbali di resa di sommarie informazioni. In quell’occasione feci anche un riconoscimento fotografico di quanti erano venuti nel mio negozio per chiedermi il pizzo o per convincermi a pagarlo».

Cosa è successo dopo? «Verso la fine del mese di luglio ebbi un incontro con i rappresentanti di Addiopizzo, Forello e Caradonna. Raccontai tutto quello che era successo e in quell’occasione chiamarono il Commissario Manzella per informarlo che ero tutelato dalla loro associazione. Per un bel po’ di tempo non si fece vedere più nessuno, almeno fino alla notte tra il 12 e il 13 settembre. Erano circa le due di notte, quando, rientrando a casa con mia moglie e dopo aver aperto la porta, fummo spintonati all’interno da due persone incappucciate che impugnavano una pistola. Mi fu intimato di aprire la cassaforte, che sapevano dove fosse ubicata, cosa che io feci pensando a un furto. Con mia grande sorpresa, una volta aperta la cassaforte non presero il contenuto e scapparono ma uno dei due uomini ci ordinò di prendere due sedie e fummo portati all’esterno dell’abitazione. Ci legarono e poi rientrarono dentro casa portando con sé un bidone. Uscirono poco dopo. Uno dei due aveva con sé una federa da cuscino in cui, verosimilmente, aveva messo il contenuto della cassaforte. Subito dopo l’uscita del secondo uomo divamparono le fiamme. Fummo soccorsi dai vicini di casa mentre la mia casa bruciava. Chiami immediatamente i Vigili del Fuoco e il Commissario Lo Bue che mi disse di chiamare il 113 e di raccontare a loro tutta la mia storia. Arrivarono sia i Vigili del Fuoco sia la Volante. Raccontai, per l’ennesima volta, che avevo denunciato i miei estorsori e che si trattava evidentemente di un atto intimidatorio nei miei confronti. Verso le sei del mattino sono stato contattato telefonicamente dalla Squadra Mobile e mi chiesero di incontrarci al Commissariato Noce. Anche a loro raccontai la mia storia. L’indomani chiamai Caradonna e gli raccontai quello che era successo e ci incontrammo qualche ora dopo con lui e con Forello. Li aggiornai e ci recammo alla Squadra Mobile. Il Commissario Manzella non era in servizio e parlammo con l’ispettore Rega e un suo collega. Raccontai ancora una volta tutta la mia storia e, di nuovo, fu redatto un verbale di resa di sommarie informazioni. All’uscita dalla Squadra Mobile sia Forello sia Caramanna se ne andarono. In quel momento provai, anzi provammo perché con me c’era mia moglie, un profondo senso di solitudine. Eravamo lì, da soli, davanti alla Squadra Mobile. Ci guardammo negli occhi e ci facemmo una domanda: “e ora dove andiamo a dormire?”».

Dove siete andati a dormire? «Andai mia madre e le chiesi la disponibilità della casa di campagna a Scopello nella quale ci trasferimmo in giornata. L’indomani mattina fui contattato dall’ispettore Rega che mi chiese di recarmi, nel pomeriggio, alla Squadra Mobile. Prima di recarmi all’appuntamento lasciai, a casa di mia sorella che abita a Cardillo, mia moglie e mia figlia. Arrivando mi resi conto che due agenti della Squadra Mobile mi stavano sorvegliando. Ne ebbi la prova quando arrivai alla Squadra Mobile perché, pochi istanti dopo, arrivarono anche loro. Aggiornai l’ispettore Rega sugli ultimi avvenimenti e, ancora una volta, si trattò di un verbale di resa di sommarie informazioni. Da metà settembre, sino ai primi giorni di dicembre, periodicamente aggiornavo la Squadra Mobile anche se, in quel periodo, anche a causa del mio trasferimento a Scopello, non era successo nulla. L’ispettore Rega, in una di queste occasioni, m’informò che avrei dovuto avere un servizio di controllo da parte del Commissariato di Castellamare e mi invitò a informarmi se fosse già attiva. Nel tempo mi resi conto che, dalla strada principale, passava una Volante che lampeggiava, per farsi riconoscere».

Fino a quando siete rimasti a Scopello? «A maggio non ce la facevo più a vivere isolato dal mondo perché avevo la sensazione che nessuno stesse seguendo il mio caso, anche perché non avevo ricevuto chiamate nemmeno da Addiopizzo e decisi così di prendere in affitto un piccolo appartamento a Palermo. Mentre ci sistemavamo, ricevetti una telefonata da tale Cosimo Mercadante, un muratore di Partanna Mondello che aveva installato la cassaforte nella villetta che fu incendiata. Mi segnalò che tale Ahmed, che lui definì il capo mandamento di Partanna, aveva ricevuto l’offerta di acquisto di un mio orologio, un Rolex, che era stato sottratto dalla mia cassaforte nella notte dell’incendio. Incontrai il Mercadante e registrai la nostra conversazione. Nel pomeriggio mi recai nello studio dell’avvocato Forello e gli raccontai quanto era successo anche alla presenza dell’avvocato D’Antoni. Inizialmente mi presero per pazzo ma, a fronte della registrazione che gli feci sentire, Forello chiamò immediatamente il Commissario Manzella e l’aggiornò su quanto gli avevo raccontato. Dopo la telefonata, Forello mi disse che, poiché non erano stati trovati indizi a proposito dell’incendio, la Squadra Mobile non stava più seguendo il caso ma, a fronte di quanto successo, volevano incontrami il giorno successivo. Anche loro, dopo l’ascolto della registrazione, credettero alla mia storia e fu redatto un ulteriore verbale di resa di sommarie informazioni ma, finalmente, fu aperta formalmente un’indagine dal Gip Turturici. Mi fu dato un telefonino, che in realtà era un registratore, sul quale avrei dovuto registrare tutti gli incontri che avrei avuto per ottenere la restituzione dell’orologio con il Mercadante e con Ahmed. Verso la fine del mese di maggio, dopo aver concordato un “cavallo di ritorno” in 1.200 euro, m’incontrai con Ahmed. In quel periodo era attivo un sistema di sorveglianza sulla mia persona da parte della Squadra Mobile che avrebbe, peraltro, dovuto intervenire nel momento dello scambio tra l’orologio e il denaro. In realtà l’incontro non andò a buon fine perché Ahmed pretendeva il pagamento prima di entrare in possesso dell’orologio, cosa che io non accettai. Ovviamente la transazione non andò in porto. Nel periodo successivo sembrava non succedere nulla, salvo periodici messaggi del Vassallo».

Se questa fosse una partita a scacchi, potremmo dire che eri in una situazione di “stallo”… «Sì, ma decisi di reagire. Nella mia vita ho sempre lavorato e non ce la faccio a rimanere con le mani in mano per cui, alla fine del 2015, decisi di prendere in affitto un piccolo locale di 8 m2 in via Maqueda, nel centro storico di Palermo, per aprire un’attività. Tutto sembrò scorrere con tranquillità, anche se senza nessuna notizia delle indagini che sapevo essere in corso e nessuna notizia da parte di Addiopizzo, almeno fino a giugno 2017. Era un sabato pomeriggio quando vidi il Vassallo, con la moglie e i figli, che mi era venuto a cercare nel nuovo negozio. Si offrì come mediatore per riavere, nel quartiere Noce, un negozio che avevo avuto diversi anni prima e che si era liberato. Mi offrì anche la sua disponibilità e quella di “altri” a consentirmi di lavorare senza nessun problema. Lo raccontai a mia moglie e il lunedì successivo tentai di mettermi in contatto con Forello, che non riuscii a trovare, e poi con l’avvocato D’Antoni, cui raccontai quello che era successo. Decisi anche di contattare l’ispettore Rega, che mi chiese di andare in ufficio da lui il giorno successivo, cosa che feci e in occasione di quell’incontro gli raccontai quanto era successo ma mi fu detto di restare tranquillo e ignorare la richiesta. Nei giorni successivi ricevetti una chiamata da parte dal figlio dell’inquilina, e dall’inquilina nei giorni successivi, che stava lasciando libero il locale di cui mi aveva parlato il Vassallo per concordare l’importo della buona uscita, perché gli era stato detto che ero interessato a subentrare. Devo puntualizzare che avevo cambiato numero di telefono e che quindi erano poche le persone che lo conoscevano ma, stranamente, arrivò questa telefonata. A fronte della mia richiesta di sapere chi le avesse dato il mio numero, la signora fu evasiva. Ci fu ancora un lungo periodo di silenzio sino a quando, nei primi giorni di maggio del 2018, passò davanti al negozio il presidente di Addiopizzo, Marannano, che m’invitò a visitare la sede di via Lincoln anche lamentando che non c’eravamo tenuti in contatto e, vista la tipologia di prodotti che vendevo, si offrì di mettermi in contatto con il presidente dell’associazione ALAB, che raggruppa molti artisti-artigiani a Palermo e non solo. Nell’arco di due giorni lo incontrai ma, visto che non ero io il produttore del materiale posto in vendita, non esistevano i requisiti per associarmi ad ALAB. In quell’occasione Marannano e Caradonna, che parteciparono all’incontro ed erano rimasti delusi per questa possibilità mancata, mi dissero che, sin dagli inizi, Forello aveva tenuto per sé la mia pratica, trattando il mio caso come se fosse suo e non dell’associazione. Mi chiesero, quindi, di togliere il mandato, che in realtà io non avevo mai dato, a Forello e affidarmi a loro, ossia ad Addiopizzo, in maniera formale. Nei giorni successivi cercai di entrare in contatto con Forello e, solo a fronte di un mio messaggio che gli comunicava che non volevo più essere seguito da lui poiché non mi sentivo tutelato, mi richiamò».

Quindi, in quel momento, tu prendi coscienza che non era Addiopizzo che seguiva la tua pratica ma lo studio dell’avvocato Forello, giusto? «Per gli incontri io sono sempre andato nello studio di Forello in via Libertà, mai nella sede di Addiopizzo. In realtà Forello mi disse che mi seguiva per conto dello sportello solidale della F.A.I., sito in via Alcide De Gasperi. Quando mi recai alla Squadra Mobile il 13 settembre 2014 ero accompagnato da due rappresentanti di Addio Pizzo ma la pratica che alla fine di settembre dello stesso anno il Forello presentò alla Prefettura era firmata dalla F.A.I.».

Torniamo alla telefonata con Forello… «Ci incontrammo e in quell’occasione mi disse che non trovava giusto che non rimanessi sotto la sua tutela perché i tempi erano maturi ma, dal maggio 2015 a quel momento Forello, era stato assente. In quel momento cominciai a ricevere pressioni sia da Addiopizzo sia da Forello. Non solo, Addiopizzo, tramite mail, comunicò a Forello che da quel momento mi avrebbero seguito loro. Ricordo che eravamo verso la fine del mese di maggio quando mi recai alla sede di Addiopizzo ma non trovai nessuno».

Il giorno dopo, esattamente il 22 maggio 2018, undici persone finirono in manette a seguito dell’operazione “Settimo quartiere” e accusati, a vario titolo, di associazione mafiosa, trasferimento fraudolento di valori aggravato dal metodo mafioso ed estorsione aggravata dal metodo mafioso. Si trattò di Calogero Cusimano di 57 anni, Cristian Di Bella di 30 anni, Fabio La Vattiata di 42 anni, Salvatore Maddalena di 42 anni, Saverio Matranga di 40 anni, Nicolò Pecoraro di 26 anni, Salvatore Pecoraro di 55 anni, Giulio Vassallo di 48 anni ai domiciliari, Giovanni Musso di 48 anni, Fabio Chiovaro, Aurelio Neri e Massimo Maria Bottino di 49 anni, già in carcere.

Cambia qualcosa dopo il 22 maggio 2018? «Immediatamente ricevetti messaggi di congratulazioni per la mia scelta e il mio coraggio sia da parte di Caramanna e Marannano ma anche di Forello. Il primo risultato, però, fu il furto della mia autovettura che avvenne il 15 giugno. Avvisai del furto l’ispettore Rega e partirono le ricerche. Avendo l’antifurto satellitare mi misi in contatto con l’assicurazione e arrivò la segnalazione della sua posizione. L’auto fu ritrovata a Borgonuovo intatta e fu oggetto di analisi della Polizia Scientifica. Il 1° settembre successe la stessa cosa, mi fu rubata di nuovo l’auto che, ancora una volta, fu ritrovata a Borgonuovo. Questa volta, però, nel bagagliaio c’era una cassetta con diversi Pc portatili che dichiarai non essere miei. Questa volta la denuncia di furto, e relativo ritrovamento, fu rimpallata tra la Squadra Mobile e i Carabinieri. Alla fine la presentai alla Squadra Mobile. Poi, di nuovo, il silenzio. A fronte di questa continua sensazione di non essere tutelato da nessuno, tra il primo e il secondo furto dell’auto, feci richiesta del porto d’armi a uso personale. Presentai tutte le pratiche ma non ottenni nessuna risposta, anzi ancora una volta ottenni informazioni che si contraddicevano sino a quando non mi dissero che la mia pratica era in Prefettura, alla quale mi rivolsi ma il mio fascicolo non venne trovato. Poco tempo dopo arrivò il diniego del Prefetto secondo il quale era inutile in quanto ero tutelato dalla Squadra Mobile».

E poi? «Nel primi giorni del 2020 chiesi a Forello a che punto erano le indagini relative ai furti senza avere da parte sua una risposta convincente. Finalmente, nel febbraio 2020, uscì la sentenza del primo grado del processo, nella quale vennero condannati tutti tranne quello che, per me, era ed è il più pericoloso, Calogero Cusimano. La notizia la apprendo, alle 19, dalla radio. Contattai Forello che mi disse che mi avrebbe fatto avere la sentenza e annunciò che ci saremmo dovuti vedere. Cosa che non successe».

La tua denuncia è servita qualcosa, allora… «Sì. Già nel fascicolo delle indagini preliminari, il gip Turturici scrisse che la mia testimonianza era stata fondamentale sia per lo sviluppo delle indagini sia per il risultato positivo dell’operazione che portò agli arresti. Per me fu spontaneo, quindi, chiedere, tramite Forello e D’Antoni, il riconoscimento di testimone di giustizia. Mi fu risposto dagli stessi che non c’erano le condizioni, nonostante il risultato processuale ma mi chiesero di firmare il mandato e nominarli miei legali».

Quindi decidi di contattare Ignazio Cutrò… «Recuperai il suo numero di telefono, lo chiamai e andai a trovarlo a Bivona. Gli raccontai la mia storia e trovai una persona disponibile ad ascoltarmi e che capiva quanto dicevo, proprio perché aveva vissuto sulla sua pelle ciò che vivevo io. Al ritorno da Bivona mi sentii rigenerato, quell’incontro mi diede la forza di continuare ad andare avanti, mi face rendere conto che, nonostante tutto quello che avevo passato, ero dalla parte giusta, quella dello Stato, non quella della mafia. Verso la metà del mese di settembre 2020 vengo informato di una manifestazione che si sarebbe tenuta il 14 settembre davanti al Ministero a Roma organizzata dai testimoni di giustizia, per lamentare il fatto che la loro voce era costantemente inascoltata. Chiesi se avrei potuto partecipare, pur non avendo ancora lo status riconosciuto, e mi fu detto di sì. Durante quella giornata conobbi molti testimoni di giustizia, potei parlare con loro e capire cosa era meglio fare. Dopo qualche giorno, magicamente, arrivò una telefonata da Forello che mi chiese di incontrarsi per fare il punto della situazione. Ancora una volta gli chiesi di poter avviare la pratica per ottenere lo status di testimone di giustizia ma, ancora una volta, mi ridicolizzò ed entrambi “perdemmo le staffe”. Me andai deluso. Ci fu una telefonata chiarificatrice e ci vedemmo qualche giorno dopo. In quell’occasione, si rese disponibile a presentare la richiesta e di avviare le pratiche necessarie per attivare la mia tutela».

Come reagisti a questo suo cambiamento? «Preparai quanto era di mia competenza per l’ottenimento dello status e la pratica fu presentata alla fine del mese di settembre. In quel momento ero un treno in corsa senza freni, perché avevo deciso di far valere i miei diritti e chiedevo ad altri avvocati se questa fosse la strada giusta. Nel mese di novembre andai personalmente in Procura a chiedere a che punto fosse la pratica. Questo fece infuriare Forello perché si sentì scavalcato e perché, a sua detta, lui aveva canali preferenziali per ottenere informazioni. Nel mese di dicembre arrivò, così mi comunicò Forello, il parere positivo del procuratore che si occupava della pratica ma che, però, annotò che avrebbe dato risposta “sull’eventuale richiesta”, segno che la pratica non aveva ancora intrapreso il suo iter e che, contrariamente a quanto sosteneva Forello, non era a Roma».

Ancora nulla di fatto… «Diedi mandato all’avvocato Ingroia di seguirmi per l’ottenimento dello status. In quel periodo mi arrivarono alcune lettere minatorie. Ingroia presentò, analogamente a quanto fatto in precedenza da Forello, la pratica e l’inviò agli organi competenti che, questa volta, non risposero. I costi da sostenere erano troppo alti per me e quindi revocai il mandato all’avvocato Ingroia e decisi di rimanere senza un legale e con la pseudo-assistenza di Forello. Qualche tempo dopo, grazie a Ignazio Cutrò, portai tutti gli incartamenti all’avvocata Katia La Barbera di Bivona. Dopo aver studiato la pratica, inviò la richiesta di verifica dei presupposti direttamente alla Commissione competente. La risposta arrivò nel maggio del 2022. La Commissione stabilì che, a seguito del parere negativo del Procuratore che seguiva il mio caso che riteneva l’attuale tutela sufficiente, “non esistevano i presupposti”. Questo nonostante la casa bruciata, i furti subiti, le attività chiuse e le lettere minatorie che nel tempo ho ricevuto».

E ora? «Voglio fare ricorso al TAR ma, a tutt’oggi, le motivazioni della decisione della Commissione che ha dichiarato che non esistono i presupposti non ci sono stati ancora consegnati. Oggi vivo grazie al Reddito di Cittadinanza. Cosa dicevi prima a proposito della partita a scacchi?»

Stallo… «Questo è… ma non mi fermo».

TAG: addiopizzo, denuncia, pizzo, solitudine, Stato, testimoni di giustizia
CAT: Giustizia, Palermo

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