Perché riforma del Senato e Italicum sono importanti

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11 Marzo 2015

Un titolo più corretto per questo post sarebbe “perché riforma del Senato e Italicum per me sono importanti”, dal momento che si tratta di un parere assolutamente soggettivo e con il quale moltissimi non saranno affatto d’accordo, con ragioni più che valide. Nonostante questo – fin da quanto Matteo Renzi ha esternato la sua volontà di mettere mano alla Costituzione per riformare i meccanismi che regolano il nostro bicameralismo e di cambiare la legge elettorale – non ho mai capito le critiche fondate sul “con tutte le emergenze che ci sono, perdiamo tempo con cose che agli italiani non interessano?”.

Sarà anche vero che gli italiani in generale non sono interessatissimi alle due riforme, ed è sicuramente vero che le emergenze nazionali sono ben altre (in primis, il lavoro); e però è anche vero che se si vuole dare all’Italia una possibilità strutturale di ripartire e non si vuole continuare a mettere pezze qua e là, è proprio da riforme organiche di questo tipo che bisogna partire.

Se si vuole davvero che una situazione migliori, non si parte a metà strada, si comincia il lavoro dalle fondamenta, in modo che tutto ciò che verrà costruito sopra non corra il rischio di cadere come un castello di carte. Passare mesi e mesi a discutere di Senato e legge elettorale può sembrare una perdita di tempo, per me è quasi incredibile che ci si sia decisi a mettere mano ai due capitoli più importanti in assoluto per dare una speranza al paese di ripartire, dopo decenni passati a discutere del nulla senza nessuna volontà di fare per davvero.

Le due riforme sono piene di difetti, come quasi sempre accade, eppure sono la migliore occasione che, concretamente e al di là degli annunci, si sia vista per sanare due dei problemi alla base del malfunzionamento della politica italiana: l’instabilità e l’incapacità di decidere. L’Italia ha bisogno di governi stabili: non si può pensare di continuare con la stagione dei governi dalla durata media di un anno e mezzo e in cui il primo ministro è tenuto costantemente sulla graticola dai gruppi parlamentari che possono decretarne la caduta da un momento all’altro.

L’Italia ha bisogno di governi che si insediano e che hanno la certezza di poter fare il loro lavoro per cinque anni. In modo da costruire un percorso a lungo termine che non si basi su annunci choc fatti allo scopo di tenere buona l’opinione pubblica. E in cui il premier non si trovi a leggere ogni mattina i sondaggi tremando di paura. Non si tratta di cose da poco, si tratta di aspetti essenziali per fare sì che un governo possa davvero fare qualcosa. Se questo governo avrà preso o meno le decisioni giuste, lo decideranno gli elettori cinque anni dopo (i governi disastrosi cadono da soli, l’esperienza insegna e il Parlamento pure).

Uno degli aspetti più odiati dalla pubblica opinione negli ultimi anni è stato il varo delle larghe intese e la nomina di premier che non sono passati dalle elezioni (Monti, Letta, Renzi). Dal punto di vista delle norme era tutto inappuntabile (noi eleggiamo solo il Parlamento, non il primo ministro); eppure questa Seconda Repubblica fondata sulle convenzioni ci ha abituato che siamo noi a decidere il premier e le alleanze di governo. Tutto questo non accadrà mai davvero se non si passa da una nuova legge elettorale; anche il Consultellum (proporzionale puro) non farebbe altro che perpetrare una situazione insopportabile: parlamento ingovernabile (e quindi larghe intese) e premier non deciso dagli elettori.

L’Italicum darebbe governi stabili e renderebbe impossibile la nascita di un nuovo governo di grande coalizione. Poco importa che sia stato costruito da Renzi perché il Pd è il partito più forte, quando si guarda a una legge elettorale bisogna considerarlo come un meccanismo che avrà conseguenze a lunghissimo termine. Oggi avvantaggia Renzi, domani chissà. L’importante è che, così, l’Italia ha la possibilità di avere governi solidi, che vengono eletti, non subiscono ricatti quotidiani e possono lavorare davvero con un orizzonte di cinque anni.

Un altro male dell’Italia è il bicameralismo perfetto. Garanzia estrema del controllo parlamentare sul potere esecutivo, ha però come effetto collaterale quello di rendere insopportabilmente lungo l’iter legislativo. Il continuo rimpallo tra Camera e Senato ha troppo spesso il solo risultato di depotenziare gli effetti di una legge, in ossequio ai mille compromessi da prendere in considerazione e alle lobby che entrano in azione ogni volta che un documento entra nella Commissione parlamentare preposta. E così, troppe volte, la montagna presentata inizialmente è diventata un topolino, a furia di essere rimpallata tra una camera e l’altra, tra una commissione e l’altra.

In momenti di crisi, stabilità e velocità sono due aspetti essenziali, ai quali non si può rinunciare in ossequio ai check and balance, perché se la nostra democrazia ha resistito a vent’anni di Silvio Berlusconi, può benissimo resistere anche a Matteo Renzi. Non si vedono pericoli all’orizzonte, finché si andrà al voto e finché le Forze Armate saranno sotto il controllo del presidente della Repubblica (per fortuna, non si parla più di presidenzialismo). Quello di cui oggi abbiamo bisogno, è di un parlamento e di un governo stabile che possa decidere e varare le leggi che ritiene necessarie in tempi ragionevolmente rapidi. E dare la priorità a questo non significa essere di destra o sognare una sinistra stile Chavez in Italia, significa sperare in un paese in cui si riesce a fare qualcosa.

Se è vero che i populismo di destra e/o l’antipolitica hanno trovato terreno fertile grazie alle larghe intese e agli immobilismi dei vari governi (che cos’ha combinato Enrico Letta in un anno di governo?), allora è attraverso una nuova legge elettorale e la riforma del Senato che si deve passare per ridare slancio alla democrazia.

Il timore che si vada verso una democrazia dittatoriale, in cui il potere legislativo è eccessivamente subordinato a quello esecutivo, in cui non ci sono sufficienti contrappesi, è sicuramente legittimo. Ma quanto vediamo nella democrazia americana, inglese, pure francese, dovrebbe insegnarci che avere un potere esecutivo forte non significa scivolare nella dittatura; significa avere un governo che dura cinque anni, dà stabilità, può fare ciò che ritiene opportuno e poi si presenta davanti agli elettori per farsi valutare.

In questi giorni si cita spesso l’adagio secondo cui “il rischio per le democrazie non è che si decida troppo, è che non si decida niente“. Detto questo, la riforma del Senato poteva sicuramente essere fatta molto meglio, ma a furia di inseguire modelli migliori si sarebbe arrivati al solito nulla di fatto.

Una cosa comunque va ammessa: con queste due riforme approvate, il rischio di un eccesso di potere esecutivo effettivamente c’è. Una sola camera, con la maggioranza a un solo partito, al cui interno ci sono molti eletti in un listino scelto dal segretario, che è anche premier di un governo che ha ancora più potere di imporre le sue leggi. Tutto questo non è un cambiamento da poco per chi, come noi, è abituato a vedere primi ministri ostaggio del Parlamento. Ma quel modello non ha funzionato granché, forse vale la pena di provarne uno nuovo.

@signorelli82

TAG: italicum, riforma del senato
CAT: Governo

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