Renzi è davvero un “grande comunicatore”?
In prossimità della scadenza dei due anni del governo Renzi, Claudio Velardi ha proposto su l’Unità un sintetico bilancio della comunicazione del suo leader. Il tema è importante, perché non vi è dubbio che Matteo Renzi rappresenti un cambio di marcia radicale nella comunicazione della sinistra italiana e si distingua anche da colui che aveva introdotto nuove forme di comunicazione e il marketing politico in Italia, ovvero Silvio Berlusconi. Per questo, non si può non essere d’accordo con le sue affermazioni, rispettivamente, che Renzi ha imposto un salto culturale alla sinistra e che si è mosso abilmente nello spazio prodotto dalla convergenza dei mezzi, nel sistema integrato dei media, si usa dire, che il premier utilizza con disinvoltura e prontezza.
Altrettanto condivisibile è che sia riuscito ad imporsi, come già Berlusconi ai tempi d’oro, come il principale autore dell’agenda politica e mediatica. Tuttavia, alcuni dati di realtà consentono di avanzare qualche dubbio sulla qualità e l’efficacia di questa comunicazione. Oggi il consenso di Renzi è più o meno prossimo a quello per il suo partito; certamente tra chi gli esprime consenso vi sono anche cittadini che non votano Pd e tra i votanti del partito democratico ve ne sono che non esprimono fiducia in Renzi, ma nell’attuale “democrazia del leader”, e nonostante la democrazia del leader, è lecito chiedersi quanto la sua popolarità poggi anche su quel che rimane del corpaccione del partito, con tutta la sua rete di fedeltà e interessi che permane in alcune zone del Paese. Tanto più che quando gli intervistati dei campioni dei sondaggi di opinione sono interrogati su questioni attinenti la credibilità del leader di governo su temi specifici – specie se economici – le valutazioni positive crollano a valori molto bassi. Se, dunque, l’entusiasmo dei tempi delle europee e delle settimane successive, con il circa 70% di popolarità al premier, si è così drasticamente ridimensionato, qualche ragione deve esserci.
Tra queste certamente la disparità tra le alte aspettative create e l’impossibilità di ottenere in tempi rapidi mutamenti significativi, in grado di incidere in modo importante sulla vita dei cittadini. Ma, forse, anche la percezione che gli interventi del governo, gli interventi narrati dal governo e dal suo leader, non siano poi così convincenti, anche se visti nella prospettiva del lungo periodo. E allora, forse, qualche problema nella comunicazione esiste.
Proviamo a individuarne qualcuno. Innanzitutto lo schema delle storytelling renziano: è sempre lo stesso. Un passato visto come un’immensa palude, i bravi giovani che trasformeranno l’Italia, i gufi che vogliono male al loro Paese e i nemici del cambiamento (che cambiano a seconda delle circostanze), l’ottimismo sempre e comunque. E’ vero che Renzi saltella senza sosta tra le varie piattaforme mediatiche, ma sempre con lo stesso plot, ripetuto fino allo sfinimento, qualunque cosa accada, di fronte a qualunque problema o questione politica. Questa rigidità – che costituì anche il grande limite di Berlusconi – alla fine rischia di stancare, un po’ come le scuse ripetute alla maestra per i compiti a casa non fatti, e come quelle scuse rischia anche di apparire sempre meno credibile. A ciò si aggiunga, come corollario di questo primo elemento, il mutismo di Renzi quando sono in ballo questioni difficili, complicate, non facilmente traducibili in slogan semplicistici e acchiappaconsenso.
Il secondo elemento riguarda la dimensione emotiva. Un leader politico è tale quando sa coinvolgere i suoi pubblici, dal suo partito ai cittadini, creando un legame emotivo, a sua volta prodotto da un racconto coinvolgente che fa sentire ai destinatari del racconto che esiste un comune destino e quel leader è in grado di incarnarlo. Il Renzi di governo, invece non emoziona. Il suo modo di porsi è più da oratore di una convention aziendale che non da leader politico, utilizza sempre le stesse battute e le stesse figure retoriche, ormai riconoscibili e per questo dal suono falso, cerca di imbonire, non di emozionare. Il “venghino signori venghino” della sua famosa conferenza stampa del marzo 2014, quando con slide che piacciono molto a Velardi, ma che in realtà richiamavano (come quelle che si sono poi succedute) più la pubblicità di un supermercato, piuttosto che lo schizzo di un futuro migliore, voleva essere una battuta simpatica, ma in realtà celava la cifra di una comunicazione. E qui il corollario è l’atteggiamento nei confronti della stampa, arrogante, stizzoso, di scherno, di continue pressioni affinché tutti stiano nei binari del suo racconto. Il corollario, cioè, è l’uso di un’ abbondante dose di hard power per tenere in piedi un soft power (seduzione, argomentazione efficace, coinvolgimento e convincimento, abilità nel disegnare scenari convincenti) carente. Ad esso se ne può aggiungere un secondo: la preferenza di Renzi per platee ridotte e sicure, lo sfuggire a confronti con “folle” che possono metterlo in difficoltà. Nello schema prima citato, c’è anche la gente che sta dalla sua parte, ma di quella gente pare in realtà talvolta avere timore.
Il terzo fattore ha a che fare con il rapporto tra politica e comunicazione. La politica è anche comunicazione, ma non solo. L’intreccio è profondo, ma una buona politica è fatta anche di analisi e preparazione dei dossier, chiara individuazione degli obiettivi e delle diverse possibili opzioni per raggiungere i risultati, messa in campo degli strumenti per agire (risorse umane, relazioni, costruzioni di alleanze, etc.), solo per citare alcuni fattori chiave. Il problema insorge quando il consenso di breve periodo costituisce l’obiettivo prevalente, tendente a monopolizzare il “pensiero di governo”. Nelle attuali “democrazie del pubblico” è spesso così, ma nel caso italiano sembra che questo fenomeno sia particolarmente acuto. Ed ecco che allora la comunicazione per costruire il consenso, nella campagna permanente del governo, prevale su tutto e le politiche divengono funzionali non tanto a raggiungere obiettivi, ma a un racconto di governo volto a mostrare l’efficacia, l’intraprendenza, la capacità decisionale e così via. Cioè, la messa in scena del governare prevale sul governare. La decisione serve come una pennellata dell’ affresco del buon governo e così si spaccia un regalo di compleanno di 500 euro a tutti i diciottenni come una misura per combattere, attraverso la cultura, il terrorismo, contro ogni buon senso e evidenza empirica. Solo che, pur se, come diceva Berlusconi, l’elettore medio ha la capacità di comprensione di un ragazzino di terza media, forse anche il ragazzino di terza media capisce quando qualcuno lo sta prendendo in giro.
Velardi nella conclusione del suo intervento indica quale nuovo scenario dove si dispiegherà l’azione, e soprattutto, la comunicazione di Renzi, l’Europa. Ma proprio i passi già compiuti su quel teatro, più ostico di quello, un po’ addormentato, italiano, mostrano che, se è vero che Renzi è capace con le sue uscite comunicative di creare scompiglio, che non sempre è da considerarsi negativo, è anche vero che proprio in quel teatro ha mostrato tutta l’improvvisazione del suo fare/comunicare politica, con dichiarazioni roboanti, e talvolta contraddittorie, voli retorici (Ventotene) e schiaffoni a destra e a manca, senza mai chiarire quale sia il suo disegno, per l’Europa e per l’Italia in Europa. Già in molti, anche tra i suoi simpatizzanti, lo hanno notato. Anche in Europa ripete il vecchio schema narrativo; anche in Europa pensa di convincere facendo il bullo più o meno simpatico, non costruendo un disegno e alleanze per realizzarlo; anche in Europa lancia slogan dai quali però è difficile dedurre chiare intenzioni.
Il mondo, vorrei dire a Claudio Velardi, non è diviso tra osservatori “provinciali” e “ottocenteschi” e fini esegeti del nuovo che avanza e delle autoevidenti magnifiche sorti e progressive che ci attendono. In mezzo, un grande “mezzo”, ci sono tanti che cercano di capire cosa sta accadendo e quali direzioni sta prendendo la loro democrazia, cercando di non forzare la realtà in narrazioni autoconsolatorie solo perché quelli di prima hanno fatto un sacco di errori e comunque, oggi, non c’è alternativa. Anche se non c’è alternativa (ma non è questa una profezia che si autoavvera?), provare a vedere se il re è nudo o poco vestito è comunque salutare per contribuire a un discorso pubblico minimamente degno per una democrazia.
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