Dopo Napo, la vertigine della Terza Repubblica
L’unico modo per descrivere un uomo che senza rete cammina su un filo teso tra due palazzi, è strizzare gli occhi e abbassare la voce. È impossibile seguire in altro modo un equilibrio oscillante, precario ma persistente, sistematico passo dopo passo, alzando la voce e incitando ad accelerare, rallentare, piegare a destra o a sinistra. Parlare del presidente Giorgio Napolitano invocando giudizi cauti e razionali, anche in questo imminente e da tempo sussurrato passaggio del suo percorso nei palazzi della Repubblica, quindi, non è solo rispetto per la figura politica e il ruolo istituzionale, o adesione al motto “scherza coi fanti ma lascia stare i santi”: è semplicemente l’unico modo possibile per capirci qualcosa.
Occorre andare alle radici della famiglia politica di cui Napolitano è stato epigono. Molti miglioristi avevano matrice liberale, ma erano comunisti. “Stalinisti”, ma sempre alla destra del Partito. Sempre minoritari perché eterodossi, ma eterodossi in quanto ortodossi, e ortodossi in quanto realisti. In Ungheria erano, per necessità, dalla parte dei carri armati, ma attraversarono Budapest senza una goccia di sangue sulla camicia bianca. Erano filosovietici, ma problematici, quindi accolti come voci rispettabili negli Stati uniti. Erano “Riformisti” filosocialisti, ma non si sbilanciarono mai fino a sconfinare nella socialdemocrazia. Entrarono per primi al governo delle grandi amministrazioni italiane, intrattenendo rapporti utili con il craxismo, senza mai rimanerci quel minuto in più che facesse sospettare non lo facessero per il popolo. Capivano e rispettavano il libero mercato, e lo scrivevano in discorsi ufficiosi, ma sostennero il “capitalismo monopolistico di stato” di ispirazione leniniana, in ogni discorso ufficiale fino al giorno prima della Bolognina.
Il migliorismo italiano individuava il filo su cui passeggiare, trovava l’equilibrio perfetto, e prima di cominciare a camminare piegava un po’ la gamba per pendere a sinistra. Lo muoveva un istinto formidabile alla mediazione fra gli inconciliabili. Se un migliorista avesse incontrato Dio e il diavolo, li avrebbe fatti accomodare uno in fronte all’altro, chiedendogli di riporre fulmini e forconi sotto al tavolo, e avrebbe avviato la trattativa. Il ruolo del migliorismo italiano, come lubrificante di grandi blocchi che in alcuni momenti frizionavano, è stato centrale per lo meno nella prima Repubblica.
Napolitano è il prodotto più evoluto e raffinato di questa scuola. A chi sia appassionato di politica e si cimenti con questi fatti, vedere Frank Underwood dimenarsi così tanto per ottenere risultati tutto sommato meschini, fa l’effetto surrogato che farebbe ad un turco bere un caffè americano in cartoccio da passeggio. Il nostro Presidente ha passeggiato disinvolto sul confine della Guerra Fredda. Non so se mi spiego.
Naturalmente, questa attitudine alla mediazione ad ogni costo, è stata sovente scambiata per opportunismo o, peggio, mancanza di coraggio e risolutezza. Per descriverlo coniarono in casa migliorista la fulminante definizione che, alludendo alle sue origini nobili, ne descriveva lo stemma araldico: “coniglio bianco, in campo bianco”.
Ma è un giudizio fazioso, e la faziosità perde completamente l’altro aspetto del tutto tondo: il coraggio e la persistenza che occorre per individuare lo spazio esistente, collocarvisi, se necessario rannicchiarsi e spingere quanto possibile per ottenere, al momento opportuno, quanto disponibile.
Certamente, in un partito che rispondeva alle masse, tale attitudine non fu sempre ben compresa né apprezzata; i miglioristi collaboravano col nemico, e sovente spegnevano l’ardore della folla rivoluzionaria. Diciamocelo, tuttavia; è sempre stato necessario che in vetta alla ragion di Stato qualcuno si mettesse un passo prima del baratro e frenasse uno a uno quelli che giungevano di corsa per compiere il giolittiano ”salto nel buio”.
In questo quadro complessivo, si colloca il ruolo del nostro Presidente negli ultimi anni di crisi. Un ruolo garante. Garante di chi? Ma di tutti. Garante degli interessi del Paese, a un passo dalla bancarotta. Garante delle nostre forze politiche malgrado loro stesse, così raffazzonate, sputtanate e incapaci di leggere la realtà da necessitare una balia. Garante di tutti i poteri nostrani che pretendevano di avere voce – voci disparate – nella gestione della crisi. Garante, sopra a tutti, delle promesse fatte all’Ue, e quindi agli interessi che nelle assurde pretese regressive a cui siamo stati obbligati, avevano a loro volta trovato una mediazione. Insomma. Garante di interessi divergenti, sempre più inconciliabili, mediatore fra il giorno e la notte.
Al principio di tutto, alla vigilia di Monti senatore a vita, con compasso e righello aveva trovato il punto esatto di equilibrio, lo spazio stretto in cui collocarsi; li si era posizionato, comprimendosi e aspettando di ottenere il possibile, quando possibile. Lo spazio, però, al posto di ampliarsi si è ristretto, il tempo della pazienza si è allungato a oltranza. Quanto poteva durare questo supplizio logorante, sotto la sferza di interessi che spingevano e tiravano in ogni direzione? Ora la fatica gli si legge negli occhi che osservano la spontanea irragionevolezza della nuova generazione arrembante.
Qui le ragioni della sua abdicazione, che per certi versi a chi constati la drammatica situazione del paese, la sofferenza dei disoccupati, il fastidio per l’assurdità delle politiche europee, la necessità di una classe dirigente giovane e coraggiosa, l’esigenza di politiche di crescita, aprono pure ambiti di speranza.
E tuttavia, per altri versi, un filo d’angoscia si fa spazio in noi: quando balleremo infantili e irragionevoli in cima alla vetta della Ragion di Stato correndo senza freni verso l’orlo del baratro, d’ora in poi, chi ci fermerà?
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