Ecco perché lo spacchettamento del referendum costituzionale è impossibile

12 Luglio 2016

1. Premessa – Si avvicina (?), in un clima politico arroventato dalle polemiche, il referendum sul “testo di legge costituzionale approvato in seconda votazione di maggioranza assoluta, ma inferiore ai due terzi dei membri di ciascuna Camera, recante: «disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione»”, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 15 aprile 2016.

Nel frattempo, fermatasi, sulla soglia delle 420000 firme, la corsa dei quesiti abrogativi di norme (liste bloccate e premio di maggioranza) della legge elettorale per la Camera dei deputati (il secondo pilastro del “pacchetto” di riforme c.d. Renzi-Boschi, approvato col voto di fiducia) e comunque sollevati i dubbi di costituzionalità che li sorreggevano dinanzi alla Corte[1], si apre alle modifiche in Parlamento: una folla di questioni e di piani, che si intrecciano e si sovrappongono, rendendo difficile distinguere le suggestioni dal merito, le ragioni politiche dai motivi tecnico-giuridici.

Ad oggi, peraltro, la data ufficiale del referendum costituzionale non è ancora stata comunicata né si sa su cosa si andrà a votare: di fronte al pericolo di un esito infausto, si prende tempo – immaginando di sfruttare l’onda di una manovra finanziaria flessibile – e si ipotizza un “voto parziale o per categorie separate”. Meglio attutire l’impatto, devono aver pensato, da un lato, coloro che vorrebbero impedire al Presidente del Consiglio di usare l’eventuale successo come un surrogato di legittimazione  ma anche coloro che, viceversa, intendono togliere ai suoi nemici, nel caso di vittoria dei no, l’arma della richiesta di dimissioni: «sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire».

2. L’omogeneità del quesito referendario tra art. 75 e art. 138 Cost. – Certo, ogni decisione sull’Italicum, che sia di marca parlamentare o giurisprudenziale, non potrà non riflettersi anche sugli effetti della revisione costituzionale, dal momento che dalla sua forte impronta “verticale” e maggioritaria (con capilista bloccati e premio di maggioranza alla lista che supera il 40% dei voti al primo turno o si aggiudica il ballottaggio) sembra dipendere la realizzazione dell’obiettivo principale dell’intero pacchetto, ovvero l’opzione fondamentale per una democrazia “governante”, avente il baricentro non più sull’organo rappresentativo ma sul potere esecutivo.

Tuttavia, qui importa, in particolare, ragionare sulla revisione e, in particolare, sul referendum costituzionale, che – sia detto per inciso – è, nel nostro sistema, strumento di garanzia della minoranza, sul presupposto che la Costituzione e le leggi costituzionali non siano nella disponibilità della maggioranza ma, per la loro importanza e gravità, richiedano (quantomeno programmaticamente) la condivisione di tutti. Sotto questo profilo, colpisce la torsione plebiscitaria ad esso impressa inizialmente – quando i fasti delle elezioni europee facevano presagire una facile vittoria –, l’impossessarsene da parte della maggioranza quasi a volerlo sottrarre alla sua funzione fondamentale e il tentativo, da ultimo, di procrastinarlo e spacchettarlo, per rispettare, si dice, i limiti di omogeneità, chiarezza ed univocità del quesito da sottoporre all’elettore, che deve poter scegliere liberamente (e consapevolmente) fra l’opzione favorevole e quella contraria[2].

Se, infatti, la libertà di voto e il principio della sovranità popolare sono alla base della giurisprudenza sul referendum abrogativo, quella medesima esigenza di unitarietà sostanziale dell’oggetto del quesito, data la sostanziale identità di petita, quantomeno con riferimento alla secca alternativa tra un sì e un no, sembra doversi affermare – si starebbe per dire: a maggior ragione – anche per il referendum costituzionale.

In realtà, a differenza di quanto ammesso per i referendum abrogativi[3], per quello costituzionale, l’ipotesi di frazionare i quesiti, presentandoli in forma unica ed esclusiva o in modo plurimo fino a coprire l’intero testo normativo non sembra seriamente praticabile: vi si oppongono la lettera della Costituzione e della legge e, soprattutto, lo spirito delle stesse.

Il che, si badi, finisce per confermare, per altra via, quanto qualcuno continua a ripetere da anni, ovvero l’illegittimità delle revisioni costituzionali disomogenee per la violazione degli artt. 1 e 48 Cost., nonché – per quanto sembra a chi scrive – del limite insuperabile dell’art. 139 Cost.: la “forma” repubblicana.

3. Parzialità del quesito e senso del referendum – Si potrebbe innanzitutto osservare che, quando il costituente ha voluto ammettere la possibilità di referendum parziali, come nel caso dell’art. 75 Cost., lo ha detto… il che, sulla base di un elementare canone interpretativo porterebbe a concludere che, laddove, al contrario, non dice, evidentemente, noluit!

Al contrario, la possibilità di referendum parziali è certamente esclusa nel procedimento per l’approvazione e modifica degli statuti delle regioni di diritto comune. Intervenendo al riguardo, la Corte costituzionale ha avuto modo di precisare che “il tenore letterale del terzo comma dell’art. 123 della Costituzione rende palese che il referendum ivi disciplinato si riferisce alla complessiva deliberazione statutaria e non a singole sue parti” (sent. n. 445/2005)… un precedente del quale, data l’analogia con la disciplina del procedimento di revisione costituzionale, la Corte, eventualmente chiamata a pronunciarsi, non potrà non tener conto.

A maggior ragione se si considera che anche l’art. 138 Cost. parla di “legge” sottoposta a referendum, la quale “non è promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi”, stabilendo con ciò un nesso inscindibile fra l’oggetto dell’approvazione parlamentare e quello del voto popolare, tanto da far ritenere illegittima l’eventuale promulgazione da parte del Capo dello Stato di una legge di revisione (in parte) diversa da quella approvata dal Parlamento.

Il requisito della corrispondenza fra il testo approvato dalle Camere e l’oggetto dell’eventuale referendum emerge ancora più chiaramente dalla legge n. 352/1970, i cui articoli 4 e 16 fanno riferimento, inequivocabilmente, agli indici formali estrinseci (testo approvato e pubblicato in G.U.) e intrinseci (gli articoli della Costituzione modificati) dell’atto-legge (di revisione) costituzionale da sottoporre a referendum (artt. 4 e 16), escludendosi ogni margine di intervento (manipolativo) da parte del Comitato promotore[4], sicché l’oggetto del referendum costituzionale non è definito dai promotori ma si trova, per così dire, fissato dalla legge.

Il punto è che il referendum costituzionale costituisce una fase (eventuale) del procedimento legislativo (di revisione) costituzionale, sicché una possibile modifica per suo tramite del testo approvato dal parlamento darebbe luogo, inevitabilmente, a una legge diversa e nuova, che potrebbe non rispondere in alcun modo ai desiderata del parlamento, che – nel caso di specie – voleva una grande,  “storica” riforma mica una sommatoria di modifiche costituzionali.

D’altra parte, se è vero che nel più ci sta il meno, non si può dire il contrario: la parte non è il tutto[5].

4. I limiti assoluti alla revisione costituzionale – Ad ogni modo, gli sherpa sono al lavoro per tentare lo spacchettamento e per trovare in parlamento i promotori. Spetterà all’Ufficio centrale per il referendum verificare la praticabilità dell’operazione e, verosimilmente, la risposta – sulla base dei dati testuali indicati e dei precedenti – non potrà che essere negativa, sicché non rimane che immaginare un ulteriore passaggio, quello del conflitto di attribuzioni fra lo stesso Ufficio e i(l) comitato (/i) promotore(/i).

L’esito finale non dovrebbe ragionevolmente cambiare ma i tempi, inevitabilmente, slitterebbero e forse questa possibilità potrebbe, di per sé, risultare “politicamente” interessante per chi ha ragione di temere un risultato negativo.

Tornando ai profili più strettamente tecnici, occorre a questo punto domandarsi se il nesso omogeneità/referendum sia davvero inscindibile. La lettera del sopracitato art. 123 Cost., ammettendo il referendum su un testo – lo statuto della regione ordinaria – per definizione eterogeneo, sembrerebbe smentire l’assunto, peraltro facendo emergere, con nettezza, la distinzione di due termini (omogeneità e unitarietà), spesso utilizzati come un’endiadi. In realtà, si tratta, all’evidenza di concetti che coprono aree semantiche differenti, sicché da quella disposizione – introdotta con la revisione del 2001, quando il tema delle “grandi riforme” era ormai da tempo entrato nell’agenda politico/costituzionale – si ricava certamente la necessità che il voto popolare sia congruente o, se si preferisce, coerente con il risultato emerso dal voto del consiglio regionale e non che sia omogeneo … il che è esattamente quello che si chiede anche nel caso del referendum costituzionale.

Questi argomenti nulla tolgono, tuttavia, alla doverosa garanzia della libertà di voto degli elettori (art. 48 Cost.) né, tantomeno, al principio della sovranità popolare «nelle forme e nei limiti della Costituzione» (art. 1 comma 2 Cost.)… peraltro, guardata da questa prospettiva, l’esigenza di omogeneità del quesito (rectius: del testo della revisione) si estende, al di là dei confini del singolo referendum all’intera tornata referendaria, finendo per pretendere dalla famosa “casalinga di Voghera” una consapevolezza maggiore di quella degli stessi legislatori.

Su questi temi insiste da tempo Alessandro Pace e che si tratti di questioni ormai entrate nell’agenda politica lo dimostra il disegno di legge costituzionale presentato dal governo Letta, con il quale si ipotizzava di modificare l’art. 138 della Cost., introducendo la precisazione secondo cui “ciascun progetto di legge è omogeneo e autonomo dal punto di vista del contenuto e coerente dal punto di vista sistematico” (art. 4, c. 2, ddl AS 813, recante “Istituzione del Comitato parlamentare per le riforme costituzionali ed elettorali”).

Con il che la domanda si sposta dal quesito al procedimento di revisione, come disciplinato dall’art. 138, rispetto al quale occorre chiedersi se esso si applichi a qualsiasi modifica costituzionale o piuttosto non presupponga – come molti sostengono – che le modifiche debbano avere carattere puntuale e specifico e non possano coinvolgere in una sola legge una pluralità di temi, tra loro eterogenei.

Non risulta, invece, che sia stato recentemente chiamato in causa l’art. 139 della Costituzione, a tenore del quale “la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale” e, tuttavia, sembra a chi scrive che sia arrivato il momento di tornare a chiedersi – specie a fronte di revisioni che interessano un’intera parte della Costituzione, con inevitabili riflessi sulla prima e addirittura sui principi fondamentali – quale sia l’ambito dei limiti sostanziali alla revisione costituzionale. Se, infatti, è comune in dottrina la tesi dei limiti assoluti e della loro riconducibilità a due categorie: quella dei limiti positivi, fondati su espresse o implicite disposizioni costituzionali e quella dei limiti logici, discendenti piuttosto dalle scelte politiche fondamentali su cui si regge il sistema delineato dalla Costituzione, diventa difficile non vedere nelle c.d. “grandi riforme”, ovvero nelle modifiche con esse introdotte della forma di Stato e della forma di governo, altrettanti mutamenti, per non dire snaturamenti, della stessa “forma” che i costituenti hanno dato alla nostra Repubblica.

Sul punto, nessuna certezza … certo, si avverte, sempre più urgente, la necessità di una nuova riflessione sulla portata dei c.d. principi supremi dell’ordinamento costituzionale, per meglio definire il confine tra revisione e mutamento, se non si vuole che le riforme virino in de-forme e i pacchetti in pacchi.

 

[1] Fra le rationes decidendi della dichiarazione d’incostituzionalità della legge n. 270 del 2005 individuate dalla Corte costituzionale, quella dell’«eccessiva divaricazione tra la compressione dell’organo di rappresentanza politica (…) e la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto» (sentenza n. 1 del 2014), sicché sembra ragionevole ritenere che non diversa dovrebbe essere la sorte del c.d. Italicum, in forza del quale una lista, in sede di ballottaggio, col 20 o 25 per cento dei voti, potrebbe, grazie al premio di maggioranza, conseguire la maggioranza dei seggi.

[2] V. Corte cost. sent. n. 16 del 1978, p.

[3] La prassi ha conosciuto richieste plurime e per parti separate su un medesimo legislativo, come per es. nel caso dei cinque quesiti abrogativi sulla legge 40/2004, tutti orientati nello stesso senso o dei tre quesiti contrapposti  sulla legge n. 194/1978.

[4] Sulla possibilità di quesiti plurimi di identico tenore ed aventi ad oggetto l’intero testo, v. P. Carnevale, La parte per il tutto: il referendum costituzionale non ammette la sineddoche, in Nomos. Le attualità nel diritto, 2016, I, 6-7.

[5] I P. Carnevale, La parte per il tutto, cit., 11-12.

TAG: referendum, Referendum costituzionale, riforme, riforme costituzionali
CAT: Governo, Partiti e politici

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