Il lavoro subordinato è morto

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18 Aprile 2017

Il codice civile, all’articolo 2094, definisce il lavoro subordinato, altrimenti detto anche lavoro dipendente, così: “È prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”.

Ecco, se consideriamo le migliori organizzazioni, quella che sanno affrontare meglio le difficoltà del mercato, quella chiusura dell’articolo del codice civile – “alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore” – risulta essere del tutto fuori tempo e inadeguata per le loro necessità.

In questa definizione, infatti, è implicita una visione culturale che viene dai secoli scorsi e che sintetizzo brutalmente così:

Il padrone possiede tutti i mezzi di produzione e, senza impegnarsi molto, sfrutta questo capitale per arricchirsi – una “rendita pura” (cit.). Il lavoratore invece, non avendo alcun patrimonio da utilizzare per vivere della sua rendita, può solo vendere il suo tempo / lavoro, che sarà sfruttato – anche per l’abbondanza di offerta – dal padrone.

Com’è noto, questa visione dei rapporti economici è stata seppellita dai fatti e dalla storia. Infatti il padrone si è dovuto trasformare, anche a causa del mercato, in imprenditore. Cioè colui che mette a disposizione sì i mezzi di produzione, ma deve ormai necessariamente avere talento ed energia per far funzionare efficacemente la sua impresa. Deve cioè lavorare con passione, grande impegno e metterci tutta la sua intelligenza.
Ma non basta.
Dovrà abbandonare anche l’idea, cha a molti (troppi) piace, di avere come collaboratori dei meri esecutori, cioè dei lavoratori subordinati. Se non lo farà il rischio, anzi la certezza, è di scomparire.

Vi sono, a dire il vero, altre teorie. Ad esempio quella che riguarda il contenuto assicurativo del rapporto di lavoro tra imprenditore e lavoratore. Sulla base di questa idea, all’origine del rapporto di lavoro subordinato c’è una differente attitudine al rischio dei due soggetti: la parte più sicura delle proprie capacità offre al soggetto meno sicuro dei propri mezzi la garanzia di un reddito, scambiandolo con la possibilità di acquisire il suo tempo di lavoro. Ma anche in questo caso, la sola acquisizione del tempo non è più sufficiente. Il lavoratore sarà insoddisfatto e l’imprenditore, come abbiamo già detto, non riuscirà a stare sul mercato a lungo.

E il lavoratore?

Oggi, per le ragioni indicate sopra, diventa sempre più difficile vendere solo ed esclusivamente il proprio tempo.

Infatti, gli imprenditori, richiedono anche la partecipazione al loro progetto, un contributo di idee; la condivisione di valori e obiettivi. In questo modo si riesce a dare un “senso” a ciò che il lavoratore fa quotidianamente, si va cioè oltre al semplice scambio economico. Sempre più, gli sarà richiesta un’attitudine imprenditoriale, ovvero la capacità di tradurre le proprie idee in azioni, anche attraverso l’assunzione di rischi e la capacità di pianificare e gestire risorse e progetti per raggiungere certi obiettivi. Insomma anche il lavoratore, per sopravvivere ai tempi, dovrà scegliere l’organizzazione giusta, quella più in linea con le sue aspettative, aspirazioni, insomma quella più affine (v. “Diversità, democrazia e organizzazioni”). Tutto ciò, almeno in teoria, dovrebbe realizzarsi con reciproco vantaggio.

Capite bene che tutto questo, con il lavoro sub-ordinato, non ha più nulla a che fare.

A tutte queste considerazioni vorrei aggiungere le molte incongruenze e assurdità che, la separazione attuale tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, hanno creato.

Ad esempio nella definizione giuridica di lavoro subordinato, contenuta nel nostro codice civile e citata sopra, rientrano tranquillamente sia i lavoratori con una retribuzione di 15.000 euro all’anno che dirigenti con retribuzioni da milioni di euro.

Sinceramente si fatica a comprendere quale nesso ci possa essere tra un amministratore delegato e un giovane neo-diplomato appena assunto e soprattutto perché mai entrambi debbano godere delle stesse garanzie giuridiche, per il solo fatto di essere formalmente “subordinati”. Oggi, infatti, entrambi hanno più o meno le stesse tutele previdenziali, assicurazioni sulla malattia e maternità e soprattutto le stesse garanzie economiche nel caso di recesso del datore di lavoro.

Sfido chiunque a giustificarlo razionalmente.

E’ altrettanto difficile capire perché un dirigente licenziato riceva milioni di euro di “buonuscita” mentre un avvocato, un commercialista o un qualsiasi altro professionista (con competenze, “employability” e forza sul mercato del lavoro paragonabili), a fronte della perdita del loro maggior cliente, solitamente non ricevano alcuna indennità. Penso di conoscere la risposta di molti: la “monocommittenza” e la promessa di continuità. Ovvero il Dirigente ha un solo “cliente” e ha ricevuto una promessa di continuità dell’incarico. A me paiono, entrambi, argomenti moto fragili. Per quanto riguarda la monocommittenza, tra l’altro, abbiamo il caso degli “Agenti”: infatti questa figura giuridica gode delle stesse tutele, per il recesso del preponente (il “datore di lavoro”), sia quando siano monocommittenti (monomandatari) che pluricommittenti.
Siamo quindi nell’ambito dell’incongruenza, se non della totale irrazionalità del quadro normativo.

Uno dei pochi che, in Italia, si sia posto il problema adeguatamente è Pietro Ichino. In una delle sue tante proposte, aveva, correttamente, introdotto il concetto di “LAVORO ECONOMICAMENTE DIPENDENTE”. Un concetto assai più razionale dell’attuale distinzione tra lavoro “subordinato” e “autonomo” e che separava i lavoratori in due gruppi sulla base dei loro effettivi compensi. E cioè solo i redditi più bassi – indipendentemente dal fatto che derivassero da lavoro subordinato o autonomo – avrebbero beneficiato di tutte le tutele. Per tutti gli altri, invece, un livello minimo di diritti garantiti. Apparentemente una banalità, ma non per il nostro paese.

Diciamo quindi che il lavoro subordinato dovrebbe essere archiviato anche solo per l’assoluta irrazionalità del contesto giuridico che oggi lo sorregge. E se anche a questo problema si ponesse rimedio, probabilmente, non sarebbe sufficiente. Prima o poi, infatti, il mercato e gli imprenditori, spinti dalle necessità di sopravvivenza, ne determinerebbero la scomparsa per inadeguatezza.

TAG: innovazione, Lavoro, politica
CAT: Governo, Partiti e politici

6 Commenti

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  1. massimiliano-zanoni 7 anni fa

    Se l’ideologia è legittimare il proprio tempo pensando ad altro (Fusaro), quello di Benassi è un intervento ideologico a tutto campo.
    Non si chiede infatti di che morte è morto il lavoro subordinato: un acciacco o è stato ucciso? e nel caso da chi e perchè?
    A chi vanno i benefici della sua scomparsa, dell’aumento della precarietà, ecc.
    Non si domanda perchè persino i piccoli imprenditori, che lui disegna come ‘bovini percettori di profitto’ prima (ci sarà un imprenditore incazzato che risponde a questo…), ora invece sono anche loro precarizzati nell’incerto mondo globalista e si devono industriare per campare.
    Insomma, tutto quello che succede, secondo Benassi, è la naturale dinamica del Darwinismo sociale del mondo libero, che segue le leggi di mercato, ovvero dell’Homo Economicus, in cui si inserisce in modo naturale il suo supporto alle ‘risorse humane’ in cerca di appiglio.
    Conflitti di interessi? o anche solo conflitti?
    non pervenuto

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  2. francesco-g 7 anni fa

    Personalmente non sono pienamente d’accordo con queste parole: è vero che una parte del mondo del lavoro sta cambiando, ma è altrettanto vero che c’è un bisogno profondo del concetto di subordinazione per un’altra parte di quel mondo, non esigua. L’industria 4.0 ha imposto cambiamenti, ma non tutta l’industria si è dotata di questo modello organizzativo, probabilmente perché a certe realtà produttive non serve: il lavoro dipendente c’è ed è prestato da soggetti deboli oggi così come 30 anni fa. Basti pensare alle cassiere, agli operai metalmeccanici, ai commessi. Le idee di Ichino sono affascinanti, ma scontano forse una visione parziale dei problemi: la retribuzione, ad esempio, non è solo una sorta di premio assicurativo, ma contiene il corrispettivo della prestazione del lavoratore, nonché la componente minima. Perchè questo? Perchè il nostro ordinamento ritiene di dover proteggere i soggetti deboli, ritiene di non poter lasciare alla libera dinamica delle parti certi “affari”, perché il risultato sarebbe una corsa al ribasso dei compensi di questi soggetti deboli (basti vedere lo scandalo, a mio avviso, dei tirocini). Sarebbe più utile, allora, pensare a come tutelare i nuovi lavori senza, per questa via, abbattere le tutele per i lavori tradizionali. Il lavoro subordinato non è morto, forse qualcuno vuole ucciderlo.
    PS i dirigenti non godono esattamente delle stesse garanzie giuridiche, per esempio in tema di licenziamento; le buonuscite, poi, sono frutto di accordi tra le parti o previste dai contratti collettivi.

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  3. alessandro-bottai 7 anni fa

    come imprenditore, non posso che essere del tutto d’accordo con Benassi: il lavoro subordinato (e quindi la tutela dei soggetti deboli di cui parla francesco-g) potrebbe ancora esistere in una fabbrica dove gli umani svolgano attività ripetitive e meccaniche, e mi chiedo se è questo che vogliamo per il mondo del lavoro (anzi, è proprio intendere il lavoro in questo modo che porta poi a considerare soluzioni automatiche: se l’intervento umano non aggiunge nulla, tanto vale usare un software).
    In qualsiasi altro caso, l’approccio che dovrebbe prevalere è quello dei servizi: anche la cassiera del supermercato sta erogando un servizio alla proprietà e indirettamente ai clienti finali; il modo di proporsi della cassiera ai clienti finali, la sua disponibilità e cortesia, la sua capacità di immedesimarsi nel cliente e diventare propositiva di nuove soluzioni, sostanzialmente il suo modo di “vendere” se stessa contribuisce in modo determinante al successo dell’impresa. Oggi non si può prescindere da questo: dobbiamo tutti dare un senso al nostro contributo lavorativo che vada oltre la semplice vendita del nostro tempo, dobbiamo piuttosto cercare di offrire qualità, perché tutti noi cerchiamo qualità quando siamo a nostra volta clienti di un fornitore di beni o di servizi, che sia privato o governativo.
    Non basta esserci: dovremmo aver imparato a metterci in discussione e chiederci se siamo veramente utili e stiamo facendo davvero il nostro meglio, se il nostro contributo è realmente utile. Qualsiasi ruolo deve essere messo in discussione, non esiste più la rendita di posizione, e questo vale per la commessa come per l’amministratore delegato.
    La vera differenza di tutela andrebbe impostata – come indica Benassi – rispetto al valore e alla retribuzione del rapporto, perché la sperequazione è quella: il manager (del pubblico o del privato) che riceve stipendi o liquidazioni faraoniche è ormai un retaggio del passato, ed è una pratica ormai contestata nei settori più avanzati dell’impresa.

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  4. massimiliano-zanoni 7 anni fa

    Vedo gran confusione.
    Lavoro subordinato significa dipendente, non ripetitivo né bovino. Googlare x credere.
    Chi vuole meno subordinazione, ovvero più precarietà, e contemporaneamente migliori retribuzioni, è ancora più confuso.
    L’imprenditore che ha meno dipendenti ha anche meno domanda aggregata, gli va meglio?
    A me no

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  5. fabrizio-benassi 7 anni fa

    Meno subordinazione vuol dire più responsabilità sia dell’imprenditore che deve riuscire a dare un senso a quello che i suoi collaboratori fanno, non solo uno stipendio, ma significa anche più responsabilità da parte dei collaboratori per quanto riguarda la loro partecipazione al progetto dell’impresa. Progetto che l’imprenditore, il manager deve costruire in modo più condiviso possibile. Nessuna fregatura o precarietà, si tratta solo di impegnarsi a fare cose eccezionali, in tempi eccezionali. Chi ha voglia di leggere la storia di un’organizzazione eccezionale (WL Gore) che fa cose eccezionali, eccola…. http://www.managementexchange.com/story/innovation-democracy-wl-gores-original-management-model

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  6. massimiliano-zanoni 7 anni fa

    Viene in mente “tu vò fa l’americano ma’…”. Quando uno assume la forma del martello tutti i problemi sembrano chiodi.
    Per Benassi siamo tutti manager (di noi stessi), compresa la cassiera; poi però dimentica di confrontare il suo reddito con quello dei ‘collaboratori’: mentre il manager vero si porta a casa il bonus milionario (spesso anche quando fallisce) il neo-collaboratore non ha più le ferie pagate e nemmeno l’assicurazione medica.
    Come, del resto, omette di controllare il cv dei suoi lettori, scoprirebbe che conoscono bene tutte queste storie di successo made in US.
    Se il medico al pronto soccorso è subordinato forse un motivo c’è o preferite il modello in cui prima di curarvi controllano il plafond della vostra carta di credito?
    Questo terzo commento è un’eccezione per la discesa in campo dell’autore.

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