Il rischio di sottovalutare la scissione renziana

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18 Settembre 2019

Alcuni opinionisti analizzano con sufficienza la creazione di Italia Viva da parte di Matteo Renzi come se il suo fallimento fosse già assodato. Malgrado le criticità, non credo che si possa già paragonare il destino dell’ex premier a quello di Gianfranco Fini o di qualsiasi altro leader che si sia avventurato nella creazione di un partitino centrista. Al contrario di altri soggetti, la scissione del senatore di Rignano è stata programmata da mesi, grazie al lavoro dei suoi fan, i quali hanno speso le loro forze nella creazione di comitati civici territoriali. L’operazione vuole apparire come una saggia separazione pacifica, ma con almeno due peculiarità: l’ex premier non ha spiegato fino in fondo le sue ragioni e non ha forzato la mano sul numero degli scissionisti.

Quest’ultima caratteristica è certamente curiosa, perché gli scissionisti hanno sempre provato a racimolare più uomini che potevano, a tutti i livelli. Stavolta non si è associato neanche Luca Lotti, compagno di tante battaglie ed eminenza grigia del potere renziano. Potrebbe essersi consumata una rottura tra i due, ma allora che dire dei vari Dario Nardella, Giorgio Gori, Andrea Marcucci e dei tanti altri fedelissimi che hanno scelto di restare nella casa madre?

La tentazione del leader fiorentino potrebbe essere quella di provare a controllare o destabilizzare quel che resta del PD. Marcucci potrebbe mantenere il ruolo strategico di capogruppo al Senato, mentre Lotti fungerebbe da talpa ideale, perché capace di minare la credibilità delle scelte politiche del PD agli occhi degli elettori e militanti stanchi della stagione renziana. Un gioco di disturbo che potrebbe far perdere la pazienza al (troppo) mite Zingaretti, messo con le spalle al muro tra continuare ad affidare l’incarico di capogruppo a Marcucci nel segno dell’unità o cacciarlo per manifesta incompatibilità. Personalmente, sceglierei la seconda opzione senza esitazione alcuna.

Sebbene l’ex premier abbia scientemente evitato di citarle, la scissione ha motivazioni profonde. Nella sua intervista ha preferito discernere del possibile ingresso dei fuoriusciti di LEU (come se il loro ingresso provocasse direttamente lo straripamento della parte renziana), nonché di sorrisi, felicità, innovazione, femminismo, come se il PD fosse un partito triste e maschilista.

In realtà, il possibile ritorno al proporzionale e la lenta consunzione di Forza Italia offrono la possibilità di costituire un partito liberale di centro che né Urbano Cairo (ancora troppo oscuro) né Carlo Calenda (troppo intellettuale) sembrano essere in grado di dirigere. Matteo Renzi sarebbe l’esponente più autorevole di un liberalpopulismo che potrebbe ritagliarsi un ruolo importante se PD e M5S faranno ciò che viene chiesto loro da numerosi militanti: ridare allo stato un ruolo centrale nell’economia. Potrebbe nascere una contrapposizione ideologica tra liberali e socialdemocratici le cui differenze potranno essere calcate senza rompere mai, in nome del comune antisovranismo.

A mio modesto parere, il progetto avrebbe avuto maggiore forza se il senatore di Rignano avesse coinvolto ex amici come Paolo Gentiloni, Marco Minniti e Dario Franceschini. Quest’ultimi avrebbero svolto il ruolo di padri nobili del nuovo soggetto politico e lo avrebbero aiutato a mantenere un dialogo costante con un PD trasformatosi finalmente in un partito socialdemocratico. Al contrario, Matteo Renzi ha seguito il cammino che gli è sempre stato più congeniale, quello dell’one man show, con il quale potrà muoversi in piena libertà incentrando la partita su stesso. Possiamo solo osservare se il corso degli eventi gli darà ragione o meno.

TAG: Matteo Renzi, Nicola Zingaretti, partito democratico, scissione
CAT: Governo, Partiti e politici

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