La vera sfida è “far politica”

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24 Giugno 2016

Sono giorni convulsi, nervosi, arrabbiati, soprattutto per la sinistra italiana, alla ricerca di una nuova identità ma anche di responsabili di un débâcle annunciata, e che, anche alla luce dei risultati britannici, sembra in crisi in più di un paese europeo.

Ho molti amici che militano tra le fila del Partito Democratico e che lavorano davvero sui territori per trovare soluzioni, per costruire dialoghi costruttivi con la gente e per immaginare politiche nuove per le città. Alcuni di loro lo fanno da anni e lo fanno molto bene: circoli di partito e circoscrizioni spesso diventano la palestra fondamentale per “allenare” le proprie capacità politiche, nel senso più nobile del termine, e per cercare strategie di sviluppo territoriale incisive.

Purtroppo, in questi anni nessuno di loro ha veramente rappresentato il nuovo volto del PD in Italia, nessuno ha rappresentato quel rinnovamento che invece ha saputo portare nel suo territorio di riferimento.

Lo vedo nelle grandi città e anche nella mia piccola realtà di provincia che poi, tanto di provincia non è, visto che si accinge a diventare Capitale Europea della Cultura.

Anche qui alle ultime amministrative del 2015 il PD ha registrato una débâcle. A livello nazionale il risultato fu considerato sconvolgente, inspiegabile e diversi miei amici, militanti del PD, mi scrissero che era una vergogna, che i cittadini di Matera non sono in grado di apprezzare le cose importanti, le azioni di chi fa etc, etc.

Beh, vi dirò, non ero d’accordo allora con quella lettura e non lo sono oggi. A maggior ragione dopo i risultati delle ultime amministrative di Roma, Milano, Napoli, Torino, ad un anno di distanza da quelle di Matera.

Io credo che qui sia urgentissimo un bagno di umiltà da parte di un partito che spesso assume chiari tratti di presunzione  e autoreferenzialità, soprattutto alla luce di messaggi chiari di discontinuità che la comunità continua a mandare. Io credo che far finta  che sia tutto a posto e che il problema sia la gente sia l’ennesimo atto di tracotanza che la politica non si può più permettere. Lavoro su temi dell’ innovazione sociale, cittadinanza attiva ed economia della condivisione ogni giorno e mi accorgo sempre più spesso che c’è una distanza siderale tra un certo modo diffuso di raccontare questi temi anche a livello nazionale e la realtà dei territori. Se non riusciamo a declinare davvero a livello di comunità, di singoli cittadini e di nuove generazioni il tema dell’economia collaborativa, delle azioni ad impatto sociale, dell’innovazione tecnologica, etc. avremo perso tutti.

Non è tempo di creare nuove accademie che se la cantino e se la suonino, è finito il tempo in cui quelli bravi si incontrano per dirsi quanto sono bravi e quanto vogliono un mondo diverso e più giusto, ora è tempo di andare tra le persone a fare il cambiamenti, nei quartieri, nei centri storici e nelle periferie, ma farlo è impegnativo, non crediate che sia possibile risolvere il problema con azioni spot di coinvolgimento o, peggio ancora, con il marketing.

Stare tra la gente è faticoso, richiede tantissimo ascolto, pazienza, visione lunga e azione corta e cortissima, se necessario, cambio dei linguaggi, non ci sono alternative a questo, fatevene una ragione, dialogare con la gente richiede tempo e spazi, e lo sa bene proprio tutta quella gente che lo fa ogni giorno ma che non riesce a diventare quasi mai il volto di un partito.

Il tempo del mestiere del politico è finito, ora è tempo di fare politica vera, di recuperare il senso della polis greca, della “città dei cittadini”. Non ci sono ricette per ricostruire un partito, ci sono segnali forti da dare, c’è la generosità di “abilitare” cittadini e non di “comandarli”.

Abilitare è una parola bellissima ma difficile, abilitare è lasciare le redini e allo stesso tempo guidare con visione, abilitare è fiducia prima che imperativi, è suddivisione del potere, anzi è condivisione del potere.

Quanti politici sono pronti a farlo? Mi chiedo sempre più spesso cosa animi davvero chi decide di prendere la guida di un Paese, quanto alto sia il coefficiente di interesse personale e quanto la percezione del proprio ruolo di “servizio” per il bene comune. Gli interessi dei singoli, di partiti e di individualità di piccoli gruppi prevale sempre sul bene comune, purtroppo, la logica della tifoseria calcistica spesso ha la meglio sulla gestione delle diversità e sull’accettazione dei conflitti.

Se non impareremo a considerare la diversità una ricchezza e un valore fondamentale per costruire politiche davvero accessibili a tutti, resteremo sempre imbrigliati in categorie ideologiche vecchie e sempre più lontane dalla gente, e quella stessa gente prima o poi, con l’esercizio democratico del voto, provvederà a realizzare da sé il ricambio di cui c’è bisogno, sperando che le tante belle persone che oggi restano a risolvere i problemi dei territori , trovino il coraggio di entrare in campo e di diventare la nuova forza propulsiva di un paese sempre più disorientato e arrabbiato.

Il conflitto può essere un valore, imparino i politici ad accettarlo e ad affrontarlo, credo che mettere tutta la polvere sotto il tappeto del “tutto a posto”, e del “siamo bravi noi”, potrebbe aiutare a ricreare una coesione sociale e umana che sappia andare ben oltre le logiche calcistiche.

Qualcuno giustamente mi dirà: “ma la gente siamo noi”, ed io vi si dico che sì, saremo pure noi, ma cerchiamo di definire di che noi stiamo parlando, perché sarà anche a causa delle visoni distorte dei social media, che ci abituano a mondi virtuali costruiti sui “mi piace” e “partecipo”, il concetto di “noi” sta diventando sempre più fluido e anche, in alcuni casi, sempre più fumoso, si avvicina sempre più al concetto di gruppo chiuso e sempre meno a quella di community aperta.

Ho fatto un esercizio una volta su FB, ho smesso di seguire tutte le persone che consideravo parte del mio “noi”, che condividevano con me “appartenenze” e “interessi”, e ho scoperto che nessuno dei temi più affrontati e condivisi dalle mie community erano al centro dei discorsi degli altri ma che le discussioni altrui si basavano su ben altri argomenti, su ben altre “emergenze” e lì ho capito che forse una bella riflessione la dovremmo fare anche sul concetto di gente, sempre più abusato nella retorica politica.

In realtà, come ho imparato studiando storia greca, il principio fondamentale della polis era quello della maggioranza, che imponeva alla minoranza di adeguarsi alla decisione che avevano prevalso numericamente.
Commentare un voto politico così forte come un abbaglio di tanti rispetto alla saggezza di pochi mi sembra rischioso e davvero limitato per una politica che dovrebbe invece essere tutta tesa a guardare lontano ricostruendo da vicino.

Auguri a chi si impegnerà a farlo, sarà sicuramente un’esperienza che meriterà di essere vissuta.

 

TAG: amministrative, Classe dirigente, classe e partito, comunità, gente, Pd, polis, politica
CAT: Governo, Partiti e politici

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