La fiducia aumenta, solo un italiano su tre è pessimista: io sono tra questi

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2 Ottobre 2015

Le rilevazioni Istat ci dicono che la fiducia è tornata ai livelli di 7 anni fa: leggiamo che “solo” 1 italiano su 3 resta pessimista sul futuro del paese: ebbene io appartengo a questa minoranza. Non certamente perché l’attuale governo non stia cercando di smuovere questo paese, quanto perché in Italia (e direi in Europa) manca la consapevolezza di dover fronteggiare una sfida che non è più solo nostra, ma globale e che incide sulle nostre aspettative di qualità della vita.  Senza un adeguamento culturale ed una sostanziale riduzione delle nostre aspettative generali in termini di welfare, servizi e garanzie, non riusciremo mai competere in modo efficace con quella parte del mondo che ha invece aspettative molto inferiori alle nostre o, per dirla in forma più diretta, “più fame”  di noi.

Molti in Europa sembrano pensare che richiudendoci su noi stessi  possiamo proteggere un livello di vita e di welfare decisamente superiore a quello disponibile in qualsiasi altra zona del mondo e che, come ben evidenziano i dati, è stato possibile solo grazie a livelli insostenibili di indebitamento. In questo contesto si inquadrano a mio avviso le pulsioni secessioniste della Catalogna, le barriere all’entrata dei profughi (di cui peraltro abbiamo grande bisogno per contrastare una demografia che sta uccidendo la competitività del mondo sviluppato) di Ungheria o dell’ Inghilterra, il populismo antieuropeo di Grillo o Salvini, dell’UKIP, dello Scottish National Party  o del Front National della Le Pen. Ognuno di questi movimenti pensa che lasciando i problemi degli altri fuori dalla porta (confine) si possa stare meglio mentre vediamo come, ormai, la dimensione dei mercati è un elemento fondamentale della competitività degli stessi (da qui magari arrivassimo finalmente agli Stati Uniti d’Europa).

Al di là delle considerazioni etiche o politiche di questi movimenti, che personalmente trovo inaccettabili, è illusorio credere che in un mondo globalizzato, la autarchia e la chiusura al mondo esterno possano funzionare.  Proprio a causa della globalizzazione del nostro mondo e dei mercati che lo permeano, la discriminante tra un futuro di crescita e quello del declino è dettato alla fine dalla competitività.  Se oggi in USA assistiamo ad un incremento sostanziale della crescita ed insieme ad essa dell’occupazione, ciò è dovuto, tra le altre cose, alla “rilocalizzazione” di molte attività produttive che a sua volta ha seguito l’importante ridimensionamento del costo del lavoro legato alla rinuncia da parte di molti lavoratori (i blue collars così come i white collars) a molti privilegi e garanzie una volta considerati essenziali. La diminuzione del costo orario della manodopera fa sì che il capitale – per definizione e cinicamente mobile e fungibile – scelga oggi di investire in impianti e tecnologie produttive in USA dove la maggior produttività (intesa come alfabetizzazione, training, autonomia del personale e qualità del lavoro prestato) più che compensa il maggior costo per unità di manodopera dei lavoratori americani rispetto a quelli vietnamiti o del Bangladesh; la stessa equazione purtroppo non funziona in Francia o in Italia con le conseguenze che tutti possiamo vedere.

Temo quindi sia difficile essere ottimista sul futuro dell’Italia che, tra gli stati europei, è forse, insieme alla Francia, tra quelli che hanno meno accettato i cambiamenti strutturali e culturali  imposti dalla crisi. Elementi quali la scarsa produttività del lavoro così come del capitale (ad esempio a causa della scarsa capitalizzazione delle imprese o la mancanza di apertura a competenze manageriali professionali esterne alle famiglie fondatrici), la complicazione di un sistema legale ed amministrativo di difficile lettura e comprensione, la corruzione diffusa, una demografia negativa esacerbata dalla relativa chiusura ad un immigrazione qualificata o meno (ovvero a possibili risorse ma anche a nuovi consumatori), un sistema fiscale complesso ed estremamente oneroso, infrastrutture non certo comparabili con quelle di alcuni paesi concorrenti, la scarsa diffusione delle lingue straniere, una scuola che fatica ad adeguarsi ad un mondo che corre sempre più veloce, sono tutte cause di un probabile declino. Non si tratta di un fenomeno nuovo, basta pensare a cosa è accaduto all’Argentina, tra le principali potenze economiche tra le due guerre che non avendo saputo accettare le modifiche strutturali ad un modello economico come quello allora vigente che si basava sulle produzioni agricole, si è trovata a perdere una posizione dopo l’altra. Difficile non manifestare un certo scetticismo sulla capacità di riprendere un cammino virtuoso senza un profondo cambiamento culturale e di mentalità.

Come fare a modificare questa deriva? Difficile avere una ricetta anche perché la cultura ed il sistema dei valori del nostro paese non prevede – cosa che è invece è comune in altri paesi, soprattutto quelli anglosassoni – una mobilità sociale anche in discesa. Lo stesso dibattito che di volta in volta fiorisce sui cosiddetti “ diritti acquisiti” suggerisce la nostra incapacità di capire che, senza un adeguamento (ahimè al ribasso), delle nostre aspettative in termini di diritti e welfare saremo inevitabilmente destinati a soccombere. Ebbene, per cambiare questo atteggiamento, ci vorrà a mio avviso molto tempo, diciamo almeno un paio di generazioni, ma nel frattempo…continuo ad essere pessimista.

 

TAG: competitività, crisi, europa, fiducia, immigrazione, protezionismo, rilocalizzazione, Unione europea, welfare
CAT: immigrazione, macroeconomia

Un commento

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  1. tommaso.leso 9 anni fa

    “Il populismo antieuropeo dello Scottish National Party?” Ma dove, quando?
    “Le pulsioni secessioniste della Catalogna” come segno della volontà di richiudersi in sé stessi, quando l’indipendentismo catalano è sempre stato aperto, moderno, europeista, internazionalista e di sinsitra? – più della Spagna, che è erede del franchismo?

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