Gli ambientalisti cinesi: tanti, tradizionalisti e fiduciosi nel loro governo

14 Gennaio 2015

La Cina consuma circa il 50% del carbone prodotto nel mondo, e non a caso è il secondo paese al mondo per emissione di CO2. Con risultati assolutamente percepibili, in primis dai suoi stessi abitanti. Basta fare una passeggiata in un giorno d’inverno dalle parti dello stadio olimpico di Pechino per constatare come la visibilità sia di pochi metri: impossibile scorgere i cerchi olimpici sulla torre dello stadio. Persino durante la maratona che si è svolta il 19 ottobre 2014, molti dei corridori, avvisati dalle autorità dell’alto tasso di inquinamento previsto, hanno indossato maschere antismog pur di partecipare alla competizione.
Il Pm2,5 – che misura il livello di polveri sottili – nei giorni di poco precedenti la maratona di Pechino era infatti arrivato a toccare, secondo il Guardian, il livello di 300 microgrammi per metro quadrato, quando invece la soglia massima prevista non dovrebbe superare il 20. Ma le foto dei cieli grigi e opachi della Cina sono ormai note a tutti: niente di nuovo sotto il sole (che non si vede più).
Ogni anno il Regno di Mezzo emette infatti 8 miliardi di tonnellate di CO2  (contro le 5 dell’America) e l’impegno ufficiale preso dal Premier Cinese Xi Jimping durante l’ultimo vertice dell’APEC è quello di arrivare al “punto massimo” di emissioni nel 2030 per poi cominciare a ridurle grazie a una nuova politica energetica.
Secondo l’Intergovernmental Panel on Climate Change, possiamo infatti “consumare” ancora solo mille miliardi di tonnellate di CO2. Una volta che i mille miliardi di tonnellate saranno finiti nell’aria, la temperatura salirà più dei due gradi ritenuti ancora tollerabili, provocando danni incalcolabili sul fronte ambientale. Ma se la produzione di CO2 continuerà con i ritmi attuali, nel 2040 saranno stati consumati tutti i mille miliardi, sempre secondo l’Iea. E per evitare l’immediato disastro, le emissioni dovrebbero scendere immediatamente a zero, il che significherebbe “spegnere” di fatto l’economia mondiale.
Non possiamo a questo punto evitare di farci una domanda: cosa ne pensano i cinesi dei loro cieli carboniferi e grigi, dei quali il mondo intero si preoccupa? I cittadini del Regno di Mezzo sono forse felici di mettersi una mascherina per partecipare a una maratona? Amano respirare polveri sottili né sono preoccupati per l’inquinamento delle loro città, o sono invece diventati ambientalisti anche loro, proprio come succede nei paesi occidentali?
La risposta è sorprendente: i cinesi che si considerano ambientalisti, e quindi preoccupati per le condizioni dell’ambiente in cui vivono, sono molti di più degli europei e americani che si ritengono tali. È quanto emerge da uno studio svolto nel dicembre 2013 e nel gennaio 2014 da una società olandese di ricerca, Motivaction, e che ha riguardato un campione di 48.000 consumatori in 20 paesi diversi, tra cui appunto la Cina. La ricerca è stata svolta utilizzando la piattaforma online di SSI. Secondo Motivaction, il campione sarebbe rappresentativo del 75% dell’economia mondiale.
Dai risultati della survey emergerebbe come i cinesi siano i più ambientalisti del mondo. Il 64% dei cinesi si ritiene infatti un ambientalista contro il 29% degli americani. Il 75% dei cinesi cerca di vivere secondo principi ecologici contro il  46% degli americani e il 61% degli europei, e tre cinesi su quattro sono preoccupati per i danni che gli essere umani possono creare al nostro pianeta: un dato altissimo!
Se allora i “sentimenti” ambientalisti dei cinesi sono così fortemente radicati, perché non assistiamo alla nascita in Cina di movimenti di proteste ambientaliste, esattamente come succede nei paesi occidentali o nella stessa Asia?

 

Greenpeace in Cina? No, grazie

La canadese Greenpeace ha sedi in tutti i paesi occidentali, oltre che in Africa e Asia. Ma non in Cina.  Persino nell’inquinatissima Indonesia, gli attivisti di Greenpeace Indonesia sono dinamicissimi. Militanza, quella degli indonesiani, assolutamente giustificata, perché tra le dieci città più inquinate del mondo compare anche la loro Kalimantan, secondo un’indagine del BlackSmith Institute del 2013. Lo scorso 26 settembre, a Pontaniak, in provincia di Kalimantan, il livello di PM25 è addirittura arrivato a 967, che equivale a fumare circa 70 sigarette al giorno. Il governo ha distribuito delle maschere, forse inutili, e gli abitanti di Pontaniak hanno organizzato una manifestazione, ripresa da un fotografo occidentale, Paul Lowe. Senza nessun intervento repressivo da parte delle autorità nei confronti dei dimostranti.
Anche in Cina, quindi, sarebbe ragionevole aspettarsi delle forme di proteste ambientalista, visto quanto è profonda la percezione da parte dei suoi cittadini del problema dell’inquinamento. In effetti, la Cina sembrerebbe contagiata da proteste ecologiste del tipo Nimby – “Not in my back yard” – che le autorità locali cercano di controllare, evitando però il ricorso a metodi troppo violentemente repressivi.
A Ningbo, nel 2012, la popolazione è scesa nelle piazze ed riuscita addirittura a evitare che venisse costruito un impianto chimico da parte della China Petroleum and Chemical Corporation. E nel 2013, ci sono state ben due manifestazioni a Kunming, dopo che si era diffusa la voce che nella vicina Anning sarebbe stato costruito un impianto chimico per produrre sostanze cancerogene: il p–ixilene, un idrocarburo aromatico. Durante le manifestazioni vi sono stati arresti tra i manifestanti, senza però spargimenti di sangue.
La crescente classe media cinese sta quindi cominciando a preoccuparsi di concetti come la qualità dell’ambiente, e sembra disposta a barattare qualche punto di tasso di crescita del PIL con migliori condizioni di vita. Ma purtuttavia in Cina non assistiamo alla nascita di movimenti ambientalisti ufficiali come quello di Greenpeace, come succede invece nei paesi dove viene garantita una maggiore libertà ai cittadini. Da un’attenta analisi della stampa cinese in lingua inglese e di quella internazionale, non emergono infatti notizie relative alla fondazione di associazioni ecologiste in Cina. Mentre invece i rari militanti ecologisti corrono addirittura il rischio di venire arrestati.   Come nel caso di Wu Lihong, che ha scontato tre anni in prigione per una campagna contro l’inquinamento del lago Tai – il terzo lago della Cina per dimensioni – inquinato dai cianobatteri, alghe verdi causate dagli scarichi negli affluenti del lago da parte delle 3.000 aziende chimiche della zona.
Dobbiamo quindi dedurre che l’elevato grado di coscienza ambientalista registrato in Cina dai ricercatori di Motivaction non porti a fenomeni di aperta aggregazione, forse proprio in conseguenza della struttura politica del paese. La Cina è infatti al 143esimo posto nel Democracy Index dell’Economist, solo trenta posizioni davanti alla Corea del Nord che si aggiudica da sempre l’ultimo posto in questo genere di competizioni. Dove a brillare di meno è il concorrente che non promuove le libertà civili ed elettorali e punisce forme di partecipazione politica e culturale da parte dei suoi cittadini.

 

Ambientalisti cinesi: tradizionalisti e innovatori

Vi sono forse altre ragioni, oltre a quelle relative al sistema politico, che spiegano la discrasia tra l’alto tasso di ambientalismo rilevato dai ricercatori fra i cittadini cinesi e il loro attivismo tutto sommato moderato. Sempre infatti secondo i risultati della ricerca di Motivaction, l’ambientalismo dei cinesi ha due diverse facce: la prima è di tipo più tradizionalista rispetto a quella tendenzialmente radicale degli occidentali, e privilegia il concetto di armonia e rispetto verso la natura, con un accento sui comportamenti virtuosi che le persone dovrebbero avere per non turbare l’ordine generale naturale.  La seconda dimostra invece una notevole fiducia nei progressi tecnologici dell’industria, che potrebbero avere un impatto altamente positivo sul miglioramento delle condizioni ambientali. Sempre secondo la ricerca di Motivaction, i cinesi dimostrano una maggiore fiducia degli occidentali nel progresso tecnologico per risolvere i problemi dell’ambiente. Dai dati raccolti da Motivaction, il 65% dei cinesi crede infatti che molti dei problemi del futuro verranno risolti grazie alla tecnologia, contro il 48% degli americani e il 57% degli europei.
Ma la fiducia dei cittadini cinesi sembra paradossalmente ben riposta, perché oggi la Cina è il maggior investitore al mondo in energie pulite, secondo il rapporto del 2013 di Pew: “Who’s Winning the Clean Energy Race?”. L’investimento della Cina nel 2013 è stato infatti di 54 miliardi di dollari. La produzione di energia solare è aumentata di quasi quattro volte nel 2013, fino ad arrivare a circa 12 GW, superando il record di 3,2 GW nel 2012. Inoltre, per il quinto anno consecutivo, la Cina ha prodotto e distribuito più di 10 GW di energia eolica.
Ma le pale del vento sono veramente il futuro energetico delle Cina? Qualche anima pia crede veramente che la Cina possa lasciare il carbone per affidarsi totalmente al sole e il vento nei prossimi trent’anni? Non possiamo infatti dimenticarci che il Regno di Mezzo sta puntando molto, ma in silenzio, sul nucleare. La Cina dispone infatti  di 22 centrali nucleari e ne sta costruendo altre 26. Quella cinese non è un’economia di mercato dove gli spiriti liberi del capitalismo investono nei settori più profittevoli, ma è ancora un’economia centralizzata dove i leader del partito annunciano piani quinquennali che copriranno l’arco dei prossimi 35 anni, fino al 2050.  Piani che comprendono anche la costruzione di centrali nucleari di nuova generazione. E i leader del PCC non si vergognano a definire i loro piani energetici come “rivoluzionari” e a farne propaganda sugli organi di stampa del partito. Come, per esempio, il China Daily. Edizione internazionale, of course.

 

La rivoluzione energetica del PCC: più nucleare che verde?

Il 27 novembre 2014, Li Wei, ministro di un ufficialissimo Development Research Center del governo cinese ha fatto un intervento al meeting annuale della rivista Caijing, intervento dal titolo molto promettente: “Promuovere una riforma dell’energia e costruire un sistema energetico sicuro, verde ed efficiente”. Intervento che è stato diligentemente riportato per intero dal China Daily, a partire dal solito “Buongiorno a tutti!”. Un brano del discorso merita una traduzione (quasi) integrale. Nonostante l’argomento sia infatti relativo al tema dell’energia, il tono dell’argomentazione riprende lo stile maoista secondo il quale la rivoluzione – anche quella energetica, in questo caso – non potrà che essere coronata da una lunga serie di successi: “Il governo centrale cinese ha proposto una rivoluzione energetica strategica in risposta ai cambiamenti interni e internazionali dell’economia, la tecnologia, la società e la politica. La rivoluzione energetica durerà molto tempo mentre avanza passo dopo passo. Noi pensiamo che avverrà in tre fasi: la prima, con gli accordi globali e il successo iniziale, soprattutto nel corso del 13° piano quinquennale (2016-2020), che avrà il compito di mettere a punto un piano generale per una rivoluzione energetica che si prevede di completare il più presto possibile”. Ma quali sono i misteriosi ingredienti della rivoluzione energetica cinese? Ecco la variopinta lista del ministro: “Ricerca e Sviluppo; utilizzo di gas e petrolio non convenzionali; gassificazione del carbone; energia termica, eolica, fotovoltaica e da biomassa; nucleare di 3° e 4° generazione; veicoli elettrici; fonti energetiche distribuite; reti intelligenti; idrogeno; cattura e stoccaggio del carbonio”. Prendiamo quindi atto che sono scomparse le centrali a carbone dagli ingredienti del futuro energetico della Cina, anche se non sappiamo quale sarà il peso dei diversi ingredienti. Per il momento, gli unici dati ufficiali rilasciati dalla Cina sono quelli fissati dall’Energy Development Strategy Action Plan (2014-2020), dai quali emerge la volontà di aumentare l’utilizzo del gas, anche quello proveniente dagli scisti bituminosi, e si annuncia la costruzione delle nuove centrali nella zona costiera orientale, senza per questo abbandonare le fonti rinnovabili: sole, vento, acqua.

 

Verdi in Cina? Forse sì, ma patriottici

Il governo cinese sta quindi muovendosi per dare una risposta non solo alle pressioni internazionali, ma anche alle spinte carsiche provenienti dalla società civile verso l’ambientalismo, delle quali non sottovaluta certo la portata. Il fatto che il governo cinese sia impegnato in un’evidente campagna di comunicazione a favore delle energie verdi, testimonia di come sia alla ricerca di un consenso popolare sulla questione. I cinesi assisteranno quindi a una probabile diminuzione dell’emissione di CO2 nel loro paese, anche se questo comporterà plausibilmente un aumento della produzione dell’energia nucleare. La situazione dei cieli della Cina potrebbe quindi effettivamente migliorare, dopo il picco del 2030, ma ciò avverrà anche grazie alla spinta sull’energia nucleare che presenta altri tipi di rischi – incidenti, smaltimento delle scorie, ecc. – ma non porta alla produzione di CO2.
Il governo cinese continuerà presumibilmente a spingere sulla campagna di comunicazione “verde” per calmare i potenziali bollenti spiriti interni. Ai quali non verrà certo concesso di affiliarsi a organizzazioni internazionali come quella di Greenpeace, anche se non è da escludersi che venga fondata – dallo stesso PCC – un’Associazione Green Cinese. Il Partito Comunista Cinese infatti utilizza da sempre una tecnica inclusiva e nazionalista di fronte alle espressioni delle società civile, come per esempio quelle di tipo religioso. Lo dimostra l’esistenza di variegate associazioni come quella Buddista Cinese, Taoista Cinese, Islamica Cinese, o la stessa Associazione Patriottica Cristiana Cinese, che elegge addirittura una Conferenza episcopale cristiana cinese.
Gli ambientalisti cinesi che si affidano al loro governo per uscire dall’emergenza climatica non sono quindi così irragionevoli. Secondo lo scenario disegnato per il 2040 dall’International Energy Agency, sembrerebbe infatti che la loro fiducia sia ragionevolmente ben riposta.
L’utilizzo del carbone come fonte energetica passerà dal 68% del 2012 al 51% del 2040.  Le rinnovabili quintuplicheranno, come promesso dal ministro Li Wei, ma aumenterà anche l’energia nucleare: dall’1% del 2012 al 7% del 2040. Raddoppierà inoltre il consumo di gas, in linea con i trend di previsione mondiale.
Il mix energetico della futura rivoluzione cinese sarà quindi un po’ meno “verde” di quanto non si aspettano gli stessi embrionici ambientalisti del Regno di Mezzo. Ai quali potrebbero venire offerte delle forme controllate dall’alto di espressione dei loro sentiment ecologisti, così da evitare saldature ritenute pericolose con i movimenti internazionali.

TAG: ambiente, APEC, centrali nucleari cinesi, Cina, CO2, Energia, gas, inquinamento, pechino, petrolio, rinnovabili
CAT: Inquinamento

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