Oltre la paura. Uniti

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8 Luglio 2017

Ogni amministratore pubblico lo sa: la maggior parte delle richieste dei cittadini riguardano la sicurezza e il degrado reale o percepito. Delinquenza, piccoli furti, scippi, schiamazzi e molestie. Poi ci sono i casi eclatanti, come i feriti in piazza San Carlo a Torino durante la finale di Champions League. Allora, tutti si interrogano su come poter garantire una maggiore sicurezza, nel quotidiano e in occasione dei grandi eventi.

Il caso di Torino, però, ci interroga maggiormente, poiché, per la verità non c’è stato nessun problema reale di sicurezza. Ancora oggi, infatti, non si capisce quale sia stata la ragione vera della fuga di massa. Ma come è normale ci si è chiesti: cosa sarebbe successo se si fosse trattato realmente di un attentato? Così, sia sulla questione della sicurezza nella quotidianità, sia su quella relativa ai grandi eventi è necessario guardarsi in giro, capire come viene affrontata negli altri paesi.

Uno di quelli più simili all’Italia, dove cioè vige una democrazia e dove l’allerta è sempre molto alta è Israele. Un paese percepito come insicuro, soggetto a numerosi attentati ancora oggi. Dove le persone convivono con il pericolo, poiché si tratta sostanzialmente di un paese in guerra.

Ne parlo con Dan Terracini, uno studente italiano che studia ingegneria ad Haifa e che ha vissuto anche a Tel Aviv. Da tre anni in Israele ci tiene a dire fin da subito che, secondo lui, le città israeliane sono tra le più sicure al mondo. La sicurezza percepita è molto alta e, pur convivendo con il pericolo ogni giorno, le persone fanno la propria vita e non rinunciano a nulla, che sia andare all’università o a manifestazione pubbliche, feste, concerti e luoghi affollati.

Dan è cresciuto in Italia, quindi conosce la situazione italiana e dice “In Israele, una cosa come quella di Torino, non sarebbe mai potuta accadere per varie ragioni: la gente, qui, è preparata ad affrontare situazioni simili e non soltanto perché tutti hanno fatto tre anni di leva obbligatoria. Se si fosse trattato di uno scherzo, ad esempio, qui non sarebbe mai potuto succedere, perché le persone sanno cosa può scatenare e cosa significa. Ma al di là della causa, chi vive qui ha un approccio diverso alle situazioni, reagisce in modo molto più razionale e cerca di limitare i danni.” Un popolo di eroi? “No, certo, ci sono le persone che scappano, e non solo donne e bambini. Ma nella folla hai un numero molto alto di persone che sanno come gestire una situazione del genere.”

Ciò che è mancato completamente a Torino, ad esempio, è stata un’organizzazione efficace e, stando al racconto dei giornali e degli esperti, anche le misure di sicurezza, tanto che sono intervenuti i Vigili del Fuoco a cercare di riportare la calma. Dan racconta “io, come ogni ragazzo israeliano, vado tranquillamente ai concerti e nei locali senza timore. Innanzitutto la presenza della polizia è costante, è vero, è pieno di posti di blocco e ti abitui ad essere perquisito praticamente in ogni posto in cui vai. La polizia, così come l’esercito, è presente sempre. Quasi ad ogni angolo della strada. I cittadini lo sanno e accettano la loro presenza, a maggior ragione se si tratta di luoghi particolarmente affollati o in situazioni delicate.”

La situazione israeliana, ovviamente, non è paragonabile a quella europea. Il numero e la portata degli attentati, storicamente, è molto diverso, quindi gli investimenti sulla sicurezza e la spesa militare è differente. Ma Dan aggiunge un elemento fondamentale: “La percezione di essere al sicuro è molto alta. Infatti, se mi trovassi in una situazione di pericolo e non ci fosse la polizia nelle immediate vicinanze, potrei comunque contare sulla presenza e la reazione delle altre persone, amici o sconosciuti. La differenza fondamentale è che se succede qualcosa non si attiva il meccanismo del <si salvi chi può> o del girarsi dall’altra parte, anzi, è vero il contrario, le persone, mediamente, intervengono.” E non è solo una questione di preparazione, di addestramento militare ricevuto o di coraggio. “Io penso – continua Dan – che le ragioni vadano ricercate nel sentimento di appartenenza che unisce questo popolo, nel combattere le minacce interne ed esterne in modo compatto, che sia una guerra o che sia una particolare situazione che può rappresentare un pericolo nel quotidiano.” Israele non è il paradiso della sicurezza, certo, così come questa situazione porta anche a far emergere le contraddizioni di un paese che ha le sue particolarità: un reciproco sentimento di avversione tra ebrei e arabi israeliani, le problematiche scatenate tra gli integralisti e i laici e il fatto che, dato che la maggior parte dei crimini viene commessa da cittadini arabo israeliani, questi vengano considerati cittadini di serie B, mentre, essendo cittadini israeliani dovrebbero godere di pari diritti e dignità.

Il racconto di Dan, infine, restituisce un’immagine sostanzialmente chiara di come viene gestita la sicurezza in Israele: certamente c’è un presidio e un controllo del territorio molto alto, dovuto, come detto, ad una situazione particolare e non solo storica. Ma esiste un altro elemento che è un sentimento di appartenenza ed unione che travalica l’individualismo. Questa è una dimensione che gli italiani dovrebbero riscoprire, nel proprio quotidiano. Lo Stato deve garantire la sicurezza ai propri cittadini, sia per quanto riguarda il tema del controllo, sia cercando di eliminare le profonde radici della povertà, dell’emarginazione e del disagio sociale. Ma una parte spetta anche a ciascun cittadino ed è quella di sviluppare un senso civico che impone di non girarsi dall’altra parte, di ignorare chi ci sta a fianco e di intervenire, quando la situazione lo permette, a difesa del più debole, di chi subisce un’ingiustizia, di qualsiasi natura essa sia.

TAG: sicurezza, terrorismo
CAT: Intelligence, Medio Oriente

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