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UE

Ma siamo proprio sicuri che quel referendum non s’aveva da fare?

di Amedeo Panci
1 Luglio 2016

Gran parte dell’intellighenzia europeista si è scagliata con livore contro l’opinione dei britannici. I media più allineati tuonano ancora contro la “decisione sciagurata di lasciare la UE”. Contro quello che viene definito un “abuso di democrazia” perpetrato dal leader conservatore Cameron. Fino all’ultimo momento hanno creduto, hanno dato quasi per scontato che avrebbe vinto il remain. E invece, nonostante i fatti tragici della settimana precedente, gli elettori inglesi hanno scelto il leave. A nulla sono serviti numeri e dati su presunte catastrofi economiche in caso di brexit. Allo slogan degli eurocrati “ci vuole più Europa!”, i cittadini inglesi hanno semplicemente risposto picche.
La burocrazia europea, intenzionata a infliggere una punizione esemplare al Regno Unito in caso di brexit, non ha solo ricevuto uno smacco dall’esito del referendum. Adesso rischia di ritrovarsi in braghe di tela difronte alla impraticabilità proprio di quella minaccia. La posizione intransigente della commissione Juncker, che prima del referendum poteva contare sull’appoggio di paesi come Germania e Francia, ora, dopo il pronunciamento degli elettori, è destinata a restare sempre più isolata. Le minacce funzionano solo se sono credibili, oppure se l’avversario non ha il coraggio di vedere il bluff. La minaccia di ostracismo economico nei confronti dei britannici era chiaramente non credibile fin dall’inizio. A tutti gli effetti era poco più di un bluff. Il Regno Unito ha una bilancia dei pagamenti deficitaria nei confronti di alcuni grandi paesi membri della UE, i quali a questo punto non possono permettersi di perdere un cliente che, oltretutto, negli ultimi anni è cresciuto più della media europea. Sarebbe autolesionista per i governi nazionali impedire alle proprie imprese l’accesso al mercato britannico. E per altri versi gli elettori inglesi, votando “di pancia”, a quanto pare non hanno avuto paura di vedere quel bluff. Perciò non importa quello che è stato detto o minacciato prima del referendum. Adesso conta la realpolitik. E diversi, importanti paesi membri dovranno per forza rivedere le proprie posizioni al riguardo.

Difronte al danno irreversibile prodotto dal voto britannico, l’euro-burocrazia non può che sbrigarsi a togliere di mezzo i cocci e lasciarsi alle spalle lo spinoso caso brexit prima possibile, nella speranza di poterlo de-rubricare in futuro come semplice episodio scomodo. Chissà, magari domani gli storici potranno raccontarlo come un banale inciampo sul glorioso percorso verso il super-stato europeo. Logorarsi con anni di trattative, di tira e molla per l’uscita degli inglesi dalla UE, sarebbe una spina nel fianco dell’establishment europeo. Starebbe là a ricordare, in ogni momento, ai governi e ai popoli dissenzienti, che è sempre possibile tirare il freno di emergenza e scendere dal treno che ormai corre spedito verso il super-stato europeo. Starebbe là a ricordare che margini di negoziazione ce ne sono sempre, e che farsi schiacciare ogni volta dai diktat non è certo un obbligo nei confronti della storia.
L’establishment europeo non può permettersi una trattativa lunga e snervante. Perciò, non può che avanzare una e una richiesta soltanto: il Regno Unito attivi immediatamente l’articolo 50 del Trattato di Lisbona per cominciare la procedura di uscita. Questa richiesta, avanzata in modo pressante fin dal giorno successivo al referendum, viene addirittura accompagnata da una vulgata secondo cui gli europarlamentari britannici dovrebbero lasciare subito i loro seggi. Opinione che di per sé sfiora quasi il ridicolo, visto che il referendum consultivo non vincola nemmeno il governo britannico, se non dal punto di vista politico. Ad ogni modo, la posizione, pur con tutte le sfumature di enfasi che si porta dietro, incluse le più esagerate, si spiega con il tentativo di superare rapidamente una impasse che sarebbe devastante per l’intero apparato burocratico europeo.
Ma probabilmente questa strategia della separazione rapida e “non consensuale” alla fine sarà perdente. Alla procedura prevista nell’articolo 50 del Trattato di Lisbona dovrà essere dedicato tutto il tempo che serve a fare le cose per bene. Perché questo, adesso, è l’interesse di realpolitik. E nessuna pressione può essere legittimamente esercitata nei confronti del Regno Unito sui tempi di notifica per l’avvio della procedura. Forse un po’ tra le righe, ma è così che si è espresso anche l’ultimo consiglio europeo. Certo, viene detto che al Regno Unito non si faranno sconti. Ma questo non vuol dire che gli si metteranno bastoni tra le ruote. E le dichiarazioni dei vari leader a margine hanno confermato l’intenzione di procedere secondo i tempi più congrui e opportuni.
La posizione intransigente della Commissione, che appare sempre più palesemente autoreferenziale sul tema brexit, è probabilmente destinata a essere marginalizzata. A tutto questo si deve aggiungere che l’economia britannica nei prossimi anni potrebbe continuare a registrare performance migliori della media UE – cosa non impossibile visto che, peraltro, il Regno Unito non si porta dietro tutti i problemi di debito e finanze pubbliche e private scassate. L’attuale establishment europeo, dopo avere seminato catastrofismo a destra e a manca per mesi, in questa eventualità andrebbe incontro a un ulteriore smacco. Smacco dannoso, a quel punto, non soltanto per se stesso ma per l’intera costruzione europea, che rischierebbe di perdere ulteriormente credibilità.
Se le cose stanno così, è verosimile che alla fine si arriverà alle dimissioni di Juncker e della sua commissione. E ciò a prescindere dal fatto che l’attuale presidente si affretti o meno a rivedere il proprio atteggiamento nei confronti della brexit. Arrivati a questo punto, come definire questo verosimile evolversi degli eventi, se non un esercizio di democrazia? Un esercizio che potrebbe essere proprio il preludio a quella revisione dell’architettura della UE di cui per primi molti sostenitori del remain parlano da tempo? Se così fosse, il referendum sulla brexit sarà stato tutt’altro che quell’abuso di democrazia contro il quale tanti “ottimati” vanno ancora tuonando. Alla fine sarà stato un grande esercizio di democrazia. Non solo per gli inglesi in patria, ma per l’intera UE.
Le élite burocratiche hanno la tendenza a considerare gli elettori come “liberi cittadini” solo quando si esprimono a favore delle loro posizioni e delle loro politiche, e a declassarli a “popolo bue” quando si esprimono contro. Ma se l’Europa burocratica aspira a diventare uno stato, se aspira a diventare una unione politica, non può rifiutare di farsi contaminare dalla politica. E Quello che è stato messo in moto con il referendum sulla brexit altro non è che un processo politico, e come tale va accettato.

Brexit europa politica Unione europea
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