La battaglia di Asia Bibi, condannata a morte per blasfemia in Pakistan

5 Gennaio 2018

Si dice sovente che il Vaticano e i paesi occidentali non siano abbastanza attivi nel caso di Asia Bibi, la bracciante cristiana condannata a morte in Pakistan per blasfemia, ed attualmente in carcere. Asia Bibi fu accusata dalle sue compagne di lavoro musulmane di aver imprecato ad alta voce contro il profeta, fatto considerato “blasfemia” e passibile di pena di morte in Pakistan.

In Pakistan esistono ventisette motivi per decretare la pena di morte, tra questi alcuni sorprendenti per noi occidentali come blasfemia, apostasia o adulterio. Oltre 2500 persone sono condannate a morte e in attesa d’esecuzione, alcune per un crimine come la blasfemia che difficilmente può rientrare nell’ambito dei crimini d’estrema gravità per i quali il diritto internazionale ammette la possibilità di mantenimento della pena di morte (che non è vietata di per sé a livello internazionale, ma limitata nel suo uso da un trattato come l’International Covenant on Civil and Political Rights (ICCPR), ratificato da quasi tutti i paesi del mondo compreso il Pakistan).

Nei due anni in cui ho operato in Pakistan, prima come ministro – consigliere dell’Unione Europea e poi ambasciatore (2014-16), una delle preoccupazioni principali è stato il riattivarsi delle esecuzioni, sottoposte fino ad allora ad una moratoria introdotta dal presidente Zardari nel 2009 a seguito dell’orribile attentato nella scuola di Peshawar (dicembre 2014). Solo nel 2015 furono 326 esecuzioni, e grazie ad interventi diplomatici confidenziali si ottenne qualche conversione da pena di morte a pena di prigione per certi casi ben circostanziati.  Ai quali non si dà pubblicità, è una delle regole del gioco diplomatico (per evitare di rendere impossibili ulteriori reazioni popolari, visto che la pena di morte gode di grande consenso in Pakistan). Per inciso – e lo dico qui perché è informazione poco conosciuta al grande pubblico – è alle missioni diplomatiche dell’UE (Delegazioni UE) che gli stati membri affidano la supervisione e l’iniziativa in materia di rispetto dei diritti umani. Si stabilisce una strategia per ogni paese, si tiene un dialogo annuale o semestrale e poi a Delegazione UE è incaricata dell’applicazione concreta e di gestioni ad hoc e ne sopporta i costi. In generale pochi paesi gradiscono questo tipo di questioni da parte di attori diplomatici, e non dispiace a nessuno che tocchi all’UE pagare.

Nel caso della pena di morte, la cui eliminazione totale è oggetto una delle principali politiche dell’UE nel mondo, rimane il dilemma tra il proporre tale eliminazione, spesso obiettivo irraggiungibile, e il sostenere gestioni individuali in caso di particolari anomalie processuali cercando di “ridurre il danno” (anche se l’UE è SEMPRE contro la pena di morte). Era il dilemma con cui dovevamo convivere in Pakistan.

Con il riattivarsi delle esecuzioni, è cresciuto il timore che anche i condannati per un crimine aleatorio come la blasfemia (come si dimostra che qualcuno ha bestemmiato la divinità? Perché si applica la pena massima solo per blasfemia nei confronti del Profeta e non di Cristo o di un dio induista?) potessero venire giustiziati, anche se le autorità pachistane lo escludevano. Nel caso di Asia Bibi, fu l’UE a pagare avvocati e protezione della famiglia, anch’essa minacciata. Il problema del delitto di blasfemia è che non solo è aleatorio in sé e applicato solo a chi bestemmia l’Islam, ma che la pressione degli ambienti religiosi ha fatto sì che si applichino in materia in Pakistan principi di giustizia islamica (che è anch’essa legge nel paese) al di sopra di quella civile. A livello di giustizia “moderna” e giurisprudenza della corte suprema, tutto è pronto per derubricare il delitto di blasfemia da quelli passibili di pena di morte e per sottoporre la prova della blasfemia a criteri ben più rigorosi dell’attuale testimonianza di due “buoni musulmani”. Nel caso di Asia esistono enormi dubbi sulla consistenza delle prove, ma proscioglierla è un passo che nessuno vuole fare, per timore della reazione dei potenti ambienti integralisti religiosi. Il problema concreto che hanno il sistema di giustizia e il governo pakistano non è quello di giustiziarla (nessun condannato a morte per blasfemia è stato mai impiccato, e da anni non si giustizia nessuna donna), ma di come liberarla senza che sembri frutto della pressione internazionale dell'”Occidente”. Il problema reale è che se venisse prosciolta, correrebbe più rischi d’essere uccisa (lei e/o la sua famiglia) da donna libera che in carcere, dove perlomeno sopravvive.

L’unico sbocco sarebbe un proscioglimento seguito da immediato asilo politico per lei e famiglia: diversi paesi dell’UE sarebbero disposti a concederlo (per lei, non necessariamente per altri condannati a morte per lo stesso motivo: e questo apre altri problemi). In caso ciò succedesse, gli ambienti terroristi legati a movimenti integralisti islamici anti – cristiani attaccherebbero probabilmente comunità cristiane in rappresaglia, come successo due anni fa a Lahore e il mese scorso a Quetta. Non c’è il minimo dubbio che la diplomazia vaticana stia agendo in sordina per giungere alla liberazione di Asia Bibi: in Pakistan la via dei proclami e degli appelli pubblici rischia di essere più CONTROPRODUCENTE che utile, perché provoca reazioni stizzite da parte di un governo di un paese di per sé molto orgoglioso e nazionalista. Può sembrare una grande idea in Occidente, per la nostra opinione pubblica, ma non aiuta chi opera sul terreno, che deve convivere con ipocrisie ed equilibri di potere. La mia sensazione è che Asia Bibi non sarà mai giustiziata, e prima o poi liberata, ma quando avverrà, nessuno, né il Vaticano né l’UE per citare gli attori che seguono il caso più da vicino, potranno mai farlo sapere. È una delle regole del gioco che devi seguire quando ti muovi in terreni così minati.

Per quanto riguarda i cristiani in Pakistan, esserlo ti destina a una doppia marginalità: personale e sociale. Un cristiano è un reietto, un essere inferiore destinato alle professioni più umili e sottomesso ad ogni arbitrio: ho vissuto casi che mi hanno toccato molto da vicino, in casa (persone che lavoravano per me accusate arbitrariamente di gravi crimini). È un gatto che si morde la coda: i cristiani sono gli ultimi della fila, hanno scarsissimi livelli educativi, nulla possibilità d’ascesa sociale e non sono in grado di difendersi dalle accuse anche più pretestuose. La Bibi è un simbolo, ma ingiustizie avvengono tutti i giorni. Non solo per ragioni religiose, perché non solo i cristiani ne sono vittime, ma sociali: i cristiani sono l’ultima ruota del carro, come gli zingari nelle nostre società. Più che persecuzioni anti cristiane, in Pakistan esiste una struttura profondamente clanica e classista, che esclude chiunque non appartenga al sistema di potere sunnita. Gli sciiti sono cittadini di seconda classe, il resto – cristiani compresi – emarginati.

Nel caso di Asia Bibi, uno dei tanti casi di giustizia molto dubbia in Pakistan, non sono tanto interessi geopolitici o commerciali a rendere difficile la gestione del caso, ma l’oggettiva difficiltà derivate dal COME farlo senza provocare reazioni anti cristiane ancora peggiori in una società molto radicalizzata. Le campagne mediatiche hanno molto merito in occidente ma possono provocare effetti contrari in paesi come il Pakistan, nei quali ad esempio lo sdegno iniziale, condiviso anche lì, per l’attacco contro Charlie Hebdo si trasformò in campagna anti occidentale quando vennenro ripubblicate le vignette francesi in pompa magna.

Dilemma che richiede comportamenti molto prudenti non solo alla comunità internazionale, ma anche allo stesso governo pachistano.

Stefano Gatto, diplomatico dell’Unione Europea, è attualmente ambasciatore dell’UE in Guatemala dopo esserlo stato in El Salvador e in Pakistan.

TAG: Pakistan
CAT: Istituzioni UE, Questione islamica

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