L’intervistato è Massimiliano Mezzanotte (Chieti, 1971) è ricercatore di Istituzioni di diritto pubblico presso la Facoltà di Giurisprudenza di Teramo. Ha conseguito nel 2014 l’abilitazione nazionale a professore associato di diritto costituzionale. Ha svolto numerosi incarichi di docenza presso l’Ateneo teramano. Attualmente insegna ‘Diritto regionale e degli enti locali’. Ha partecipato a progetti scientifici di rilievo nazionale e ha svolto periodi di ricerca in Germania e negli Stati Uniti. E’ esperto di Unione europea e Democrazia diretta. È autore di una monografia e numerosi articoli.
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Il disegno di legge di riforma costituzionale, presentato dal Ministro Boschi e approvato in seconda dal Senato in seconda lettura l’8 agosto scorso, giace lì, bloccato dai veti incrociati e dall’ostruzionismo proveniente sia della file della maggioranza che dell’opposizione. Un primo sì al ddl è arrivato a dicembre, ma gli scogli da superare sono ancora tanti. Un progetto di riforma complesso, quello che il Governo sta portando avanti: revisione del Titolo V della Costituzione, incidendo nettamente sul rapporto e sul riparto di competenze Stato – Regioni; abolizione del Senato elettivo e riforma della legge elettorale. Politologici, costituzionalisti ed esperti della “ingegneria istituzionale” non hanno esitato a bocciare senza riserve un progetto che « reca con sé seri rischi di complicare ancora di più la situazione».
Professor Mezzanotte, qual è l’obiettivo del progetto di revisione del Titolo V della Costituzione?
«Questa riforma nasce dalla volontà di correggere l’intervento del legislatore costituzionale del 2001 ed eliminare così l’eccessivo contenzioso, moltiplicatosi sempre più negli anni, fra Stato e Regioni. Basti pensare che dal 2002 al 2013 i giudizi di costituzionalità in materia sono stati ben 2081. Un’enormità».
Non pensa che una riforma così incisiva finirà per complicare le cose, invece che semplificarle?
«Il disegno di legge Boschi è semplice da riassumere. Lo Stato cresce e amplia le proprie competenze legislative a scapito dell’autonomia regionale. In particolare, com’è stato osservato, la modifica dell’art. 117 Cost. porterebbe ad una sorta di “competenza legislativa regionale ottriata”, ovvero gentilmente concessa, da parte dello Stato alle Regioni».
Professore, a concedere prerogative era il Re. Oggi abbiamo una forma di governo parlamentare con una spiccata autonomia regionale. Lo dicono anche i manuali di diritto.
«Io non sono così sicuro che le cose rimarranno tali anche per l’avvenire. Guardi che sta succedendo oggi in Parlamento. Si parla tanto di superare il nostro bicameralismo paritario con il Senato delle Autonomie, ma quando poi si parla di competenze regionali, queste si comprimono».
O addirittura scompaiono. Mi riferisco all’eliminazione dell’art. 117 comma 3 della Costituzione, che disciplinava la competenza concorrente fra Stato e Regioni.
«Anche questo, a mio parere, rientra nel preciso disegno che il governo Renzi sta mettendo in atto, ovvero quello di ritornare ad una ricentralizzazione verticistica del potere e delle competenze. Viene introdotta una vera e propria clausola di supremazia statale, che non solo si giova dell’eliminazione della competenza concorrente, ma anche di formulazioni vaghe e generalissime, che dovranno essere in seguito specificate e chiarite dalla Corte Costituzionale».
Insomma, si ricomincia tutto da capo?
«Purtroppo si. La Consulta sarà costretta a rivedere la giurisprudenza consolidatasi negli ultimi dieci anni ed operare una nuova ‘actio finium regundorum’, ovvero un’attenta opera di specificazione delle competenze».
Ci sta dicendo che il governo Renzi vuole superare il regionalismo?
«Sicuramente si sta dando alla riforma una caratterizzazione centralista, creando le premesse per una svolta accentratrice del potere con pochissimi pesi e contrappesi. Lo testimoniano l’eliminazione della competenza concorrente e, infine, il nuovo comma 4 dell’art.117 Cost., che introduce una clausola di supremazia statale, azionabile quando lo richiede la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale, formula quest’ultima che era stata cancellata dalla riforma del Titolo V del 2001 anche in considerazione delle critiche e delle perplessità che aveva suscitato. Quindi, lo Stato potrà intervenire sempre sulla potestà regionale e senza alcuna garanzia. C’è un’altra cosa, però, da sottolineare»
Prego.
«Dal disegno di legge 1429 scompare l’art. 116, comma 3.»
Cosa prevedeva?
«Il testo vigente permette di concedere alle Regioni ulteriori forme di autonomia, creando così una forma di specializzazione regionale. C’è da dire che le Regioni “specializzate” non sono mai entrate a regime. Alcune, come il Veneto, la Lombardia e il Piemonte, ci hanno provato, ma tutto si è subito interrotto. E’ una grave mancanza, cui per fortuna la Commissione Affari Costituzionali del Senato, prima, ed il Senato in prima lettura, poi, hanno posto rimedio, reintroducendolo. Dati dell’Unioncamere Veneto testimoniano da anni come maggiori poteri legislativi significhino ricadute positive per il Pil della Regione».
Non le piace proprio questa riforma…
«Come ho già detto, il governo Renzi sta varando una revisione punitiva dell’autonomia regionale, che porterà sin da subito ad uno schiacciamento e ad una spinta centripeta del potere. Gli organi centrali saranno i dominatori indiscussi, mentre la periferia dovrà stare attenta a non disturbare il manovratore per evitare l’avocazione dei poteri rimasti».
Il puzzle sembra ricomporsi, allora…
«Sono tutti passaggi che portano logicamente ad un forma di governo con un assetto fortemente centralizzato e un leader molto forte al quale solo una Camera darà la fiducia. Anche il Porcellum rivisitato, che chiamano Italicum, va in questa direzione. Chi vince si prende tutto e accede alla nomina di tutte le cariche, Presidente della Repubblica compreso».
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