Legge sulla tortura, quel bisogno di civiltà a 15 anni dai crimini di Genova

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19 Luglio 2016

Come al solito in ritardo, come al solito dopo un dibattito surreale, sembrerebbe (il condizionale in queste ore è d’obbligo) che il DDL sulla tortura sia in procinto di essere votato e approvato dal Senato, anche se – dopo lo stop di ieri – in data da destinarsi. Si tratterebbe di una norma presente già da tempo in tutti gli ordinamenti democratici occidentali, ma osteggiata in Italia – sin da subito – dalle destre e dai sindacati di polizia che vedono in una sua eventuale approvazione una seria minaccia al loro operato. L’ultima resistenza si sta consumando proprio in queste ore, con la sospensione ottenuta da Forza Italia, Lega e Ap e le pressioni di Alfano sul governo. E anche se il capogruppo Pd Zanda ha cercato parole rassicuranti, («Verrà approvato presto, prima della pausa estiva»), la preoccupazione è che il provvedimento possa nuovamente arenarsi a Palazzo Madama.

A riguardo, si potrebbe aprire una digressione sui (troppo) fitti rapporti tra forze di polizia e dell’esercito e politica, in particolare con alcuni ambienti della destra italiana e di quell’enorme contenitore che era la DC in tutte le sue sfumature e successive evoluzioni, da Mario Scelba in poi. Senza volersi dilungare troppo sull’argomento, basti ricordare che nelle aule parlamentari – e un po’ in tutti i governi che si sono succeduti nei decenni – ci sono dei veri e propri “portavoce” voluti e sostenuti da graduati influenti, che dettano loro la linea su argomenti riguardanti la pubblica sicurezza. Qualcuno penserà che questo sia normale, che i gruppi di pressione siano parte dei sistemi democratici, ma ciò – in una repubblica democratica del XXI secolo – è in realtà qualcosa di antistorico e potenzialmente dannoso, perché chi opera nella sicurezza dovrebbe essere neutro, non condizionante o condizionabile dalle parti.

Lasciano sgomenti, a tal proposito, alcuni comunicati come quello del “Libero sindacato di polizia (Lisipo-Selp)” che cito testualmente: “La legge sul reato di tortura avrebbe un effetto devastante per l’attività delle forze di polizia, proprio in un momento in cui il terrorismo e la criminalità stanno diventando il problema più grave del nostro Paese”. Difficile trovare un nesso tra terrorismo, criminalità e la “libertà” di torturare una persona, a meno che lo stato italiano non sia qualcosa di simile alla Turchia di Erdogan, ma pur con tutti i limiti del nostro sistema democratico, il paragone non regge. Il sindacato degli agenti, nello stesso delirante comunicato, arriva a sostenere che la legge sarebbe una “castrazione psicologica” degli operatori di polizia.

La verità è che nessuno vuole impedire a chi si occupa di sicurezza di poter svolgere serenamente il suo lavoro, ma nelle moderne democrazie occidentali è giusto che i cittadini non debbano correre il rischio di essere pestati a sangue durante un interrogatorio. Chi si oppone al provvedimento sostiene che gli attuali strumenti normativi già puniscano il maltrattamento da parte delle forze dell’ordine, ma in realtà così non è, come ampiamente dimostrato da processi simbolo come quello sui fatti avvenuti durante il G8 di Genova del 2001 e quelli sulle morti di Stefano Cucchi e di Federico Aldrovandi, che anche a causa dell’assenza di un capo d’imputazione adeguato ai casi, hanno visto il complicarsi degli iter processuali con i rischi di prescrizioni e pene non proporzionate nei confronti degli imputati.

Tornando ai crimini di Genova, sui fatti avvenuti in quei giorni si è recentemente espressa la Corte Europea per i Diritti Umani, stabilendo che quanto compiuto dalle forze dell’ordine italiane nell’irruzione alla Diaz il 21 luglio 2001 “deve essere qualificato come tortura” e ammonendo l’Italia perché l’assenza di leggi in materia ha di fatto prodotto un’impunità dei responsabili di quelle violenze.

Di fondo, come spesso accade nella nostra amata italietta, il problema è innanzitutto culturale. Per molti agenti la divisa è infatti garanzia di impunità e – nei casi più gravi – strumento di soppressione. I loro capi, un po’ a tutti i livelli, tendono a chiudere un occhio sull’utilizzo della “mano pesante”, considerando le caserme delle zone franche dove alcune pratiche violente possono fungere da deterrente, specialmente contro la microcriminalità, o come strumento per acquisire informazioni. Mettere fine a queste pratiche, che talvolta possono degenerare in vere e proprie torture, non può prescindere da un innalzamento del livello di tutto il personale, dai semplici agenti ai loro superiori, modificando le regole di ingresso e potenziando gli strumenti di formazione interna. Perché ad oggi la divisa è purtroppo l’ultimo ammortizzatore sociale del paese.

Sono passati quindici anni dai pestaggi di Genova, da quella macchia indelebile che ci confermò che eravamo ancora un paese arretrato, il più arretrato del vecchio continente, di quelli dove una divisa non trasmette sempre serenità ma può comunicare paura. Quindici anni, ma quello che si consumò su quelle strade, alla Diaz, a Bolzaneto, ancora non ha un nome sul nostro codice. In verità si trattò di tortura e forse smettere di vergognarci, definendola per ciò che è, potrebbe evitare che quello che accadde in quella città recintata si possa ripetere in futuro. Sarebbe innanzitutto un gesto di civiltà. In fondo è sempre così che si comincia, dando un nome alle cose.

TAG: DDL tortura, Federico Aldrovandi, g8 di genova, genova 2001, Legge sulla tortura, reato di tortura, stefano cucchi, tortura
CAT: Legislazione

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