La triste corsa a piantare bandierine sulla riforma del Senato

19 Settembre 2015

Lo scontro nel Partito democratico attorno all’elezione diretta o meno dei futuri Senatori pare abbia trovato un aggiustamento grazie ad un compromesso sulle parole: “indicazione diretta”, un’espressione ambigua che però può accontentare tutti.
Ma ciò che più risulta interessante di questo scontro è il fatto che esso sia stato condotto in nome non di chiari interessi e visioni, ma di slogan, luoghi comuni e principi fumosi. La partita è tutta politica, ma per un po’ di igiene concettuale è bene anche mettere in evidenza come dentro a questa partita il merito sia stato tristemente sacrificato, anzi, in realtà, mai seriamente preso in considerazione.

La minoranza ha fatto dell’elezione diretta una questione di “democrazia”, ma sappiamo che un sistema democratico può tranquillamente sussistere con una Camera alta con membri nominati dai governi regionali (Germania), eletti da una assemblea di grandi elettori (i 150 mila grandi elettori francesi) o all’interno di assemblee regionali (Austria).

Da parte sua, la maggioranza renziana ha fino ad oggi posto la non elettività come un tema “non negoziabile” e nella sua retorica ha di fatto teso a far coincidere il suo progetto, con un po’ di sindaci e un po’ di consiglieri regionali designati dai consigli regionali, ma non eletti direttamente, con la fine del bicameralismo paritario. Però sappiamo che non è così. Il bicameralismo non paritario, o asimmetrico, convive benissimo con l’elezione diretta, parziale (e predominante, Spagna e Belgio) o totale (Australia).

L’idea che si vorrebbe far passare è che l’elettività diretta fornisce alla Camera alta un’uguale legittimazione rispetto a quella bassa e rende, quindi, impossibile differenziare i due rami. Ma la diversa legittimazione deriva innanzitutto dal diverso principio sotteso alla formazione del Senato rispetto alla Camera; anche in caso di elezione diretta, questa avviene su base locale, regionale o statale (come in Australia, dodici senatori per stato) e quindi è coerente con l’idea di una rappresentanza territoriale e non nazionale. Dunque, l’elezione diretta può convivere, e convive, sia con funzioni diverse tra i due rami, sia – cosa più importante – con un rapporto fiduciario tra governo e parlamento che investe la sola camera bassa. Al tempo stesso, non bisogna dimenticare che anche un Senato “nominato” può egualmente essere un Senato molto potente, come accade in Germania.

La scelta di come individuare i membri del Senato dovrebbe, dunque, essere conseguente al principio di rappresentanza che si vuole affermare, cercando di porre in collegamento le due cose in modo ragionevole e coerente. Purtroppo però, su tale principio, che dovrebbe costituire il punto di partenza, si è proceduto un po’ un tanto al chilo. Si è genericamente inteso dar vita ad un senato “territoriale”, senza però intendersi su quali territori rappresentare e su come, ragionevolmente e nei limiti del possibile, immaginare nessi sensati tra designazione e rappresentanza effettiva. In Germania ad essere rappresentati sono i Länder, non vi è dubbio alcuno. In Francia le municipalità (il 95% dei grandi elettori sono delegati dei consigli municipali). In Spagna e Belgio, dove pure non sono mancate indecisioni e confusione, si è preferito privilegiare rispettivamente province e Comunità. Piacciano o meno queste soluzioni, esse rispondono a scelte e tradizioni. Nel nostro caso, invece, le soluzioni finora raggiunte (se non altro meno confuse rispetto al più che bizzarro disegno iniziale) rispondono alle preferenze del premier, al quale piacciono molto i sindaci, ma non ha idee molto chiare su come dare rappresentanza omogenea a quel livello, e all’idea generica di dare rappresentanza alle regioni. Un po’ di sindaci, un po’ di consiglieri. Senza contare che questi rappresentanti locali dovrebbero svolgere gratuitamente la funzione di senatore, quasi a voler sottolineare il carattere marginale e secondario della funzione, un dopolavoro, insomma. Che cosa rappresenta (non simbolicamente, ma effettivamente) un tale Senato è difficile dirlo.

Il problema, dunque, non è elettività o meno, ma quale tipo di designazione per quale principio rappresentativo. Il compromesso sull’ambigua “indicazione diretta” ci dice una volta di più come il tema non interessi granché, più importante è piantare bandierine nel prato verde del nuovo corso riformatore o trovare un’identità con le solite grida contro l’attentato alla Costituzione e alla democrazia che da tempo immemorabile portano acqua all’ideologia del conservatorismo istituzionale. E poi salvare la faccia dicendo che il punto è stato tenuto. E questo, si badi, non tanto perché l’espressione trovata rappresenti un compromesso e nemmeno perché contenga ambiguità. A questo ci ha abituati, ad esempio, il pluridecennale processo riformatore belga. Però, in quel caso, momentanei compromessi e soluzioni “aperte” costituivano punti di equilibrio temporanei tra concreti e identificati interessi e idee diverse su modelli possibili (pur non mancando la dimensione del conflitto politico-partitico).

Nel nostro caso, invece, tutto è vago, a monte e a valle, e lo scontro è solo tra slogan, che naturalmente sono usati con precise finalità partigiane, che poco hanno a che vedere con quello che si vuole riformare. Simboli usati come clave, più che ponderati ragionamenti. Ma sembra che in pochi se ne accorgano.

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TAG: riforma senato
CAT: Legislazione, Partiti e politici

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