Il dottorato di ricerca nell’università che cambia

2 Gennaio 2015

Pochi giorni fa sono stati riportati sul Times Higher Education i primi risultati di una ricerca diretta presso l’università di York da Sally Hancock, e fondata su due anni di rilevazioni e sondaggi svolti su 165 dottorandi di ricerca dell’Imperial College, prestigiosa istituzione universitaria londinese, per individuare quali obiettivi e quale spirito di autorappresentazione guidasse quei giovani nel loro percorso di studi avanzati.

I risultati danno sostanza statistica a un’impressione maturata in vari ambienti nel corso degli ultimi anni, ovvero la tendenza dei Ph.D. students britannici a considerare ormai in misura minoritaria l’approdo a posizioni di ricerca e di insegnamento accademico come sbocco naturale e pressoché unico del loro percorso di formazione professionale. Solo il 25% dei soggetti osservati, infatti, punta in modo esplicito all’accademia o, in maniera magari più confusa e “idealistica”, alla prosecuzione dell’attività di studio, di crescita culturale e di produzione di conoscenza originale in collocazioni non meglio definite. Per gran parte dei dottorandi dell’Imperial (ovviamente con variazioni sensibili da disciplina a disciplina, ma senza che questa quota perda il valore ampiamente maggioritario in tutti i settori), il dottorato è un momento di sviluppo delle competenze e/o di acquisizione di reputazione e credibilità in vista di una collocazione nelle amministrazioni pubbliche e private o in ruoli strategici e ad elevata responsabilità e intensità intellettuale in grandi aziende, o addirittura in vista di un futuro imprenditoriale, con la messa a frutto in presa diretta delle proprie capacità di contribuire all’innovazione.

I dati vanno letti, naturalmente, nel loro contesto. A parlare è una generazione che ha ormai metabolizzato l’inadeguatezza del sistema accademico globale ad assorbire i “ricercatori in formazione” che produce. Circa quattro anni fa, sempre per restare in ambito britannico, l’Economist aveva tracciato il quadro sconfortante di un mondo universitario che stava ampliando a dismisura anche in realtà nazionali storicamente prive di curriculum dottorali, per avere a disposizione “accademici usa e getta”, dando così origine nel corso del tempo a un’ampia truppa di riserva pronta a farsi macinare nel tritacarne del precariato universitario, all’inseguimento di una tenure sempre più difficilmente raggiungibile. Con una quota di dottori di ricerca che globalmente annualmente arriva, in alcuni settori, a superare anche di cinque volte il numero di posizioni d’ingresso alla ricerca e all’insegnamento superiore messe a disposizione, si è fatta man mano concreta l’urgenza di offrire agli studenti coinvolti nei percorsi dottorali un “piano B” di carriera anche per i campi di specializzazione in origine più refrattari a una “riconversione”, e ora, pur con molte difficoltà e con l’impostazione di soluzioni non ancora soddisfacenti, tra i protagonisti della formazione post-laurea sembra consolidarsi la consapevolezza di queste necessità.

Questo discorso vale soprattutto, ed è un altro dato da tener presente, per i sistemi universitari più dinamici e, sul piano delle possibilità offerte, trainanti: la Gran Bretagna, appunto, come gli Stati Uniti, il Giappone e la Germania, realtà dove l’accesso ai percorsi assimilabili al dottorato è massiccio e gode nella gestione delle risorse umane di una considerazione ormai non più eccezionale ed episodica. Si tratta, del resto, di economie che si sforzano di partecipare alla competizione internazionale con un elevato sfruttamento delle capacità intellettuali e con un’attenzione privilegiata alla messa in opera di capitale umano culturalmente pregiato. Sono poi paesi che, non solo per ragioni puramente linguistiche, godono di una posizione di particolare favore nella produzione e nella circolazione di prodotti culturali, non tanto nella saggistica a diffusione popolare quanto nella messa a punto di documentari di qualità, di narrativa d’arte cinematografica e televisiva, di animazione d’autore, di opere ad elevato impatto nella divulgazione “di frontiera”. Tutti ambiti extra-accademici in cui una consuetudine allo studio dei più elevati risultati della conoscenza umana risulta decisiva per la sopravvivenza di un gruppo di lavoro ed è di conseguenza ricercata.

Il quadro di riferimento appare dunque assai lontano dal caso dell’Italia, paese che sicuramente vive in maniera acuta (perché aggravata dalla cronica incapacità di legislatore e amministratori di gestire il reclutamento) la difficoltà a sincronizzare alta formazione e assorbimento del personale accademico, ma che d’altro canto non sembra una struttura produttiva capace di assorbire in modo significativo il personale dotato di elevata qualificazione scientifica e intellettuale. Eppure, è sempre importante tener conto di realtà apparentemente così diverse da quanto stiamo passando noi.

Se si vuole sintetizzare al massimo, gran parte dei problemi del lavoro nel nostro paese nascono proprio dalla strutturale difficoltà ad integrare i risultati dell’alta formazione nel processo di creazione e distribuzione di beni e servizi. Ad essere del tutto brutali, si può dire che per decenni abbiamo garantito ruoli di discreta responsabilità progettuale a personale che aveva alle spalle una formazione inadeguata, perché troppo breve, monolingue, priva di serie esperienze all’estero, esclusivamente normativa, senza strumenti per impostare con rapidità lo sviluppo di percorsi originali di soluzione dei problemi, e che quando il sistema ha iniziato a mostrare la corda abbiamo surrogato l’ammanco di valore aggiunto complessivo causato da queste mancanze con un indebitamento che permetteva di mantenere in piedi un tenore di consumi e il tenore di vita diffuso.

Oggi tutto questo non è più possibile, e al netto dell’inevitabile “collo di bottiglia” economico e sociale che ci toccherà attraversare l’uscita dallo stato di depressione permanente passa per un generale mutamento dei costumi incentrato sulla valorizzazione a tutti i livelli delle grandi riserve di preparazione culturale, di esperienza internazionale e di esercizio all’innovazione e all’independent thinking che, quasi a dispetto degli sforzi in senso contrario dei responsabili delle politiche universitarie degli ultimi anni, siamo riusciti a sviluppare. Un’inversione delle abitudini e delle convinzioni che, naturalmente, dovrà riguardare tutti.

I sistemi di reclutamento del personale e i vertici di ampi settori imprenditoriali e dei servizi troppo spesso hanno preferito quadri dirigenti poco competitivi o costruiti in casa a forza di formazione interna (e quindi di minor costo, perché di assai più difficile collocazione presso la concorrenza globale), o hanno seguito strategie di reclutamento basate più sulla necessità di mantenere buoni rapporti con la committenza pubblica, per esempio attraverso l’assunzione dei raccomandati, che non sul match tra le qualità degli aspiranti dipendenti e le proprie necessità; ora che il gioco della competizione globale si fa duro e lo schermo della spesa pubblica mirata al sostegno di strutture produttive inadeguate si sta facendo più debole, dovranno iniziare a privilegiare la caccia alle offerte qualitativamente più allettanti semplicemente per continuare a sopravvivere sul mercato, sempre che il governo la smetta finalmente di ostacolare il lavoro di purificazione ambientale portato avanti dai fallimenti a ripetizione di vecchi relitti.

Dal canto loro gli atenei dovranno rivedere profondamente l’offerta formativa sulla base di questa opportunità, impegnando le loro migliori risorse umane a garanzia dell’efficacia, dell’intensità e dell’adeguato investimento su curriculum razionali e davvero formativi, magari con l’aiuto di una politica universitaria che finalmente stimoli l’autonomia delle sedi in modo funzionale e promuova una loro specializzazione non per decreto, ma secondo percorsi graduali effettivamente proponibili. Ché è ormai in fondo chiaro, per chi non disprezzi i dati di fatto come sono soliti fare gli editorialisti che si occupano di università, che queste tare strutturali sono causa di risultati formativi insoddisfacenti troppo spesso imputati senza alcuna ragione a una mai rilevata scarsa qualità del personale scientifico.

Gli studenti dei percorsi di alta formazione, infine, dovranno finalmente scrollarsi di dosso i resti di un’ambiguità che fin dalla loro (tardiva) fondazione negli anni Ottanta ha reso i dottorati di ricerca italiani troppo simili a borse di ricerca per “parcheggiare” giovani ritenuti già destinati al “salto” nell’accademia non appena i loro poco più anziani colleghi baciati dall’ope legis liberassero i posti. Essi, infatti, dovranno acquisire nelle loro legittime azioni rivendicative la consapevolezza di essere studenti, personale che sta completando la propria formazione verso un avvenire lavorativo ancora aperto. Di conseguenza, in vista della costruzione della loro carriera dovranno puntare ad avere il maggior numero possibile di carte da giocare su un elevato numero di tavoli, meglio naturalmente se per ruoli di rilievo in settori occupazionali di prestigio, in cui comunque i loro interessi di studio trovino adeguata valorizzazione. Dovranno esigere perciò di essere protagonisti di un’esperienza di studio e di training versatile e ricca di sfide, anche prolungata nel tempo rispetto ai canonici tre anni, che li metta di fronte alla necessità di gestire, con l’aiuto dei supervisori, classi di studenti alle prime armi, di organizzare attività di incontro e di scambio, di confrontarsi con la vita culturale di altri paesi, di svolgere un piano preciso ed efficace di outreach activities, di affiancare al proprio progetto la partecipazione a lavori di équipe, il tutto in maniera trasparente, certificabile e strutturata all’interno di un percorso controllato di crescita e di sviluppo di capacità di alto livello. E magari, partendo da qui, cominceranno anche a chiedersi se davvero tutte le università italiane sono in grado di offrire allo stesso modo e con la stessa sicurezza tutte queste opportunità. Il resto, si spera, verrà da sé.

TAG: formazione post-laurea, Formazione superiore, Imperial College London, ope legis, ricercatori, Sally Hancock, Times Higher Education
CAT: Legislazione, scuola, università

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