Frodi accademiche? Non pensiamo soltanto ai nostri concorsi

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7 Novembre 2014

Lo scorso luglio SAGE Publications, una delle più quotate case editrici scientifiche a livello mondiale, ha dovuto ritrattare sessanta articoli pubblicati tra il 2010 e il 2013 su una delle sue riviste, il Journal of Vibration and Control, a causa di fondati indizi relativi all’utilizzo di profili fittizi per bypassare procedure di peer-review facendo in modo che l’autore potesse valutare se stesso, e all’accordo tra autori “amici” per citarsi sistematicamente l’un l’altro e giudicarsi in modo favorevole.

Le dimensioni dello scandalo e l’alto livello dei ricercatori coinvolti, per lo più orbitanti attorno ai maggiori istituti universitari di Taiwan, sistema accademico in crescita e considerato di grande rilievo nella regione pacifica, hanno prodotto una vasta eco, fino a costringere le dimissioni del ministro dell’Educazione del paese asiatico, studioso che aveva avuto contatti con membri in vista del “cerchio magico” di imbroglioni seriali. In effetti, per quanto nei suoi comunicati ufficiali SAGE abbia cercato di limitare i danni scaricando ogni responsabilità su “individual authors [who] have compromised the academic record by perverting the peer review process”, un affare così grosso, caratterizzato soprattutto dalla concentrazione delle pubblicazioni incriminate in una specifica area di ricerca, getta ombre piuttosto sinistre su un campo di studi in cui, ai massimi livelli internazionali, in alcuni centri di ricerca valutati come world leading l’imbroglio si sta imponendo come elemento costitutivo del costume accademico, e in cui il ruolo di alcuni gruppi di lavoro collettivi sia sempre più chiaramente quello dell’autopromozione fraudolenta dei propri membri invece dello sviluppo cooperativo della conoscenza.

Ciò è tanto più vero perché, anche prima che esplodesse un caso limite come questo, altre indagini hanno gettato dubbi sulle modalità in cui alcune realtà emergenti nel mondo della produzione della conoscenza si stavano imponendo all’attenzione internazionale. Lo scorso anno l’Economist ha puntato l’attenzione non molto lontano da Taiwan, e i suoi giornalisti sono giunti alla conclusione che “as China tries to take its seat at the top table of global academia, the criminal underworld has seized on a feature in its research system”, visto il sempre più frequente ricorso alla falsificazione dei dati volto a far apparire come successi ricerche fallimentari o di esito contraddittorio, o alla pubblicazione in fake journals per rimpinguare il proprio curriculum, nella convinzione, a quanto pare condivisa da molti studiosi cinesi, che “administrators are unqualified to evaluate research, […] either because they are bureaucrats or because they were promoted using the same criteria themselves”, o addirittura sono pronti a promuovere tali comportamenti eticamente discutibili per poi far passare come loro meriti risultati a prima vista lusinghieri.

In breve, dalle proiezioni dell’Economist risulta che quello della produzione e della promozione di titoli scientifici privi di valore sia ormai divenuto in Cina un autentico mercato, capace di quintuplicare il fatturato in appena un paio d’anni e di proporsi come opzione interessante anche al di fuori dei confini nazionali. Infatti, concludono gli autori dell’inchiesta, nei sistemi che hanno importato solo negli ultimi anni i più articolati tentativi di offrire rigorose valutazioni comparative dell’attività di ricerca “grants and promotions are awarded on the basis of the number of articles published, not on the quality of the original research”, con effetti dirompenti proprio sulla scrittura scientifica e sul modo di interpretare il proprio lavoro quotidiano da parte degli studiosi.

La collocazione dei risultati della ricerca nei circuiti di comunicazione scientifica internazionale, infatti, in questi contesti acquisisce valore pressoché esclusivamente in quanto tassello di base ella più complessa rilevazione dell’impatto intellettuale e professionale attraverso l’aggregazione dei dati misurabili di diffusione di testate e singoli articoli in banche dati. Dove si guarda a questo lavoro di raccolta e raffinamento delle informazioni senza avere piena contezza della sua natura originaria di mera descrizione dell’“ecologia” del dibattito scientifico e sulla collocazione dei suoi attori, gli indicatori quantitativi vengono integrati di peso nelle scelte di politica universitaria come valori assoluti, spesso senza che neppure si comprenda appieno il loro processo di composizione, le modalità di selezione delle pubblicazioni inserite e di quelle considerate per le citazioni, e il contesto disciplinare e istituzionale in cui possono essere validi. Così, da un lato, la scrittura è sempre più condizionata dalla tendenza a considerare il contenuto delle comunicazioni del tutto secondario rispetto alla loro collocazione, nella fondata convinzione che nessuno leggerà davvero con occhio critico i prodotti e verificherà dati e fonti raccolte sul campo, perché al limite le pubblicazioni saranno “citate” in automatico sulla base di tema, titolo e abstract. Dall’altro, l’adozione frettolosa, forzata ed eccessivamente  “burocratica” di pratiche di verifica come la peer-review in paesi da questo punto di vista latecomers porta frequentemente le redazioni delle riviste o ad affidarsi pressoché esclusivamente a una cerchia ristretta di lettori, in pratica mettendo nelle loro mani l’intera linea editoriale della pubblicazione, o all’opposto a contattare referees con cui non si hanno rapporti di conoscenza personale, individuati soltanto tramite le preferenze indicate nelle autocandidature per il ruolo o attraverso i titoli esibiti nei database online di curricula accademici.

La conclusione a cui conduce questo quadro d’insieme è che effettivamente nei meccanismi di assessment istituzionale delle attività di ricerca si stia aprendo un campo aperto ad attività di vera e propria corruzione, soprattutto in realtà nazionali e regionali in cui la comunità scientifica è ancora relativamente ristretta e gode di margini di azione ampi per l’inadeguatezza (o la connivenza) di chi dovrebbe essere preposto a controllarla dall’esterno.

Il rischio del dilagare incontrollato di queste pratiche man mano che la “denazionalizzazione” dei sistemi di ricerca scientifica e accademica si presenta in termini di ossessione per l’assessment “oggettivo” e “misurabile” è proprio uno degli allarmi più sentiti tra quelli lanciati in uno dei suoi ultimi reports di settore da Transparency International, l’osservatorio internazionale indipendente sulla corruzione, dedicato proprio al settore dell’educazione e della produzione di cultura. Uno degli esperti che ha contribuito alla stesura del documento, David Chapman, è stato particolarmente chiaro a questo proposito, quando ha fatto notare nel suo intervento di presentazione del report  su University World News che di fronte alla necessità di garantire almeno l’apparenza dell’eccellenza e la soddisfazione sulla carta di certi standard qualitativi che investe le singole sedi universitarie in lotta per la loro sopravvivenza economica, i vertici degli atenei possono essere condotti a rendere meno stretti e certi i controlli sul comportamento del loro dipendenti, fino ad arrivare a chiudere gli occhi sul mercanteggiamento dei voti o sull’instaurazione di inappropriati rapporti di ghost writing e di “svendita” dei servizi di docenti e ricercatori in settori for profit, a una vera e propria “variation in what is regarded as acceptable practice, less rigorous oversight of faculty and staff behaviour, and greater opportunity to bend rules in an effort to burnish the organisational image”, o addirittura al tentativo di corruzione diretta o indiretta sulle agenzie che definiscono i ranking internazionali, sui centri di analisi dell’impatto delle ricerche e sulle edizioni delle principali riviste peer-reviewed, anch’essi tutt’altro che impermeabili a queste pressioni viste le loro strette relazioni con la realtà del “marketing accademico”.

Curiosamente, di questi casi e di queste prese di posizione, all’opinione pubblica italiana non è giunta pressoché alcuna voce. O forse non si tratta di una eventualità straordinaria, visto che nelle inchieste e nelle indagini qui prese in considerazione si è parlato solo marginalmente dell’unico ambito che l’immaginario collettivo di giornalisti e lettori del nostro paese riconduce alla “frode accademica”, ovvero la selezione concorsuale del personale.

In effetti, quando si parla di comportamenti poco commendevoli e poco onesti del personale accademico tutti noi pensiamo, non senza ragione, ai comportamenti spesso ben oltre il limite della decenza di tante, troppe commissioni sospese tra le pressioni delle sedi locali e gli appetiti di gruppi di potere che trovano all’interno delle comunità scientifiche di settore il loro playground. Ma il fallimento di tutti i tentativi di rimettere in riga i “baroni” riottosi con regolamenti  di reclutamento sempre più arzigogolati e proclami sempre più altisonanti al “merito” e all’“eccellenza” dovrebbe farci capire che la necessità di trasparenza e di corretta espressione degli interessi in campo riguarda campi di attività assai più ampi, e impegnare possibilmente l’intero processo di costruzione dei curricula e di individuazione degli elementi di valutazione della qualità dell’operato degli istituti accademici. Per converso l’importazione delle parole d’ordine della verifica “quantitativa” della qualità con lo zelo dei neofiti pronti a “valutare e punire” piuttosto che a informarsi e comprendere, e senza la dovuta attenzione ai necessari anticorpi per il loro abuso ormai in formazione nell’opinione pubblica internazionale coinvolta, rischia seriamente di offrire ai gruppi di interesse impegnati nella gestione delle nostre cose accademiche e disponibili a distorcere la correttezza delle procedure nuove armi. Armi potenzialmente incontrollabili, vista l’incapacità dei “controllori” dell’amministrazione ministeriale di comprenderne dinamiche interne e funzionamento. Questo chiariscono alcuni recenti esempi internazionali, e questo sembrano suggerire i primi responsi definitivi del reclutamento svolto secondo le normative della legge Gelmini, con buona pace di quelli che all’inizio dell’anno affermavano pieni di speranza che “manipolare i concorsi sarà più difficile”…

TAG: concorsi universitari, etica professionale, gruppi di ricerca, Transparency International
CAT: Legislazione, università

Un commento

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  1. Fabio Sabatini 9 anni fa

    Caro Andrea, non commento sul pezzo (l’ho già fatto in coda all’intervento di Bruno Porta), ma mi permetto una breve osservazione sulla tua chiusa: “Questo (cioè che la valutazione offre nuove armi ai baroni) sembrano suggerire i primi responsi definitivi del reclutamento svolto secondo le normative della legge Gelmini, con buona pace di quelli che all’inizio dell’anno affermavano pieni di speranza che “manipolare i concorsi sarà più difficile”…”.
    Il riferimento vagamente derisorio al mio pezzo su Pagina 99 non è particolarmente elegante, ma capisco le tue ragioni e hai la mia massima empatia per l’amarezza suscitata dal modo perverso in cui taluni hanno sfruttato e piegato la riforma ai propri interessi particolari. Mi rendo conto che in alcuni settori le cose sono andate molto male, e immagino che il tuo sia tra quelli. Tu a tua volta devi renderti conto che proprio grazie all’abilitazione scientifica nazionale in altri settori le cose sono andate molto meglio e sono destinate a migliorare ancora. In Economia politica, la disciplina cui esplicitamente mi riferivo in quel pezzo (scritto nel blog di SECS in the cities, che si rivolge principalmente agli economisti), la riforma ha portato un netto miglioramento e sì, ora sarà più difficile (ma sempre possibile, ovviamente) manipolare i concorsi. Con buona pace di chi della valutazione racconta soltanto le storture, pur comprendendone l’importanza vitale.

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