“Il fantasma introverso” (Romanzo d’appendice) Frammento I

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28 Gennaio 2022

I

 

 

–        Dalla “Rivoluzione Francese” a quella “d’Ottobre”, passando per le “Cinque Giornate di Milano”, mai una volta che avessi sentito dolore per le ferite riportate in battaglia. Si figuri se posso temere la puntura di questo spillo!

Lauren Gaspary sorride e si dimostra affabile. Il suo paziente rappresenta un caso davvero singolare e va preso con molta premura. Poi, rivolge uno sguardo d’intesa all’analista, che ricevuto l’ok, infilza l’ago nella vena del braccio sinistro dell’uomo per prelevarne il sangue. Le parole appena ascoltate da quella voce maschile, calda e ferma, sono state recepite dalla giovane dottoressa con la benevolenza della sua grazia. E, come una madre di fronte all’innocente e creativa bugia del bambino, ha reagito con la dolcezza che si deve a chi ha bisogno di comprensione.

La brava e scrupolosa professionista aveva letto attentamente la scheda dell’ospite n. 13. Un soggetto con particolarità molto complesse e, al contempo, fantasiose, affidato alla sua super visione di specialista in malattie del disturbo psichico.

Leggendo le note della diagnosi redatta dai suoi colleghi, se ne era fatta un’idea piuttosto precisa: pensava di avere a che fare con un uomo mai cresciuto, dedito a invenzioni infantili, all’interno delle quali egli aveva trovato il suo mondo ideale, rifiutando quello reale perché avvertito come luogo di eccessiva e insostenibile competizione. Da quella lettura, Lauren, aveva tratto la convinzione di incontrare una persona trascurata, ansiosa e incerta, diffidente verso le stesse figure professionali che se ne prendevano cura, e, soprattutto, prevenuta verso qualsiasi forma di indagine sulla sua personalità.

Invece, quando la porta dello studio si è aperta, le è apparso un signore distinto e di media altezza, sui 35 anni, dai colori e i lineamenti mediterranei. Indossava pantaloni beige e camicia bianca, da cui spiccava un verdissimo foulard di seta. Nella postura e nell’incedere sembrava essere abbastanza sicuro di sé, come se fosse lì per una chiacchierata amichevole tra vecchi amici, o comunque tra pari grado, e non tra medico e paziente.

Si era presentato con un’area quasi leggiadra, di quelle che si adottano quando si fa una visita di cortesia, tradendo solo una strana e leggera smorfia di contentezza quando aveva incontrato lo sguardo della dottoressa.

Lauren restò piuttosto spiazzata dall’atteggiamento di quell’uomo. Cordiale, ma con un non so che di supponente: una eccessiva sicurezza che distingue le coscienze navigate, gli animi sofferti, le sensibilità prontamente ricettive.

Lauren è una donna che non cura più di tanto il suo aspetto, cioè con normale e dovuta dovizia, ma anche in quell’occasione conservava intatto il suo fascino inconsueto. E, il paziente ne aveva colto l’essenza alla prima occhiata. Sembrava, inoltre, che si fosse messo bello fresco proprio per destare in lei una sorpresa che ne complicasse il lavoro, presentandosi come non era stato mai descritto dai suoi colleghi.

Coi capelli tirati all’indietro, raccolti in una coda che le scendeva fin sulla parte alta della schiena e gli occhi verdi senza trucco, la donna era il ritratto della professionista dedita con distinta abnegazione al suo lavoro. Niente più di questo. Ma, agli occhi dell’uomo che aveva in cura appariva come la Venere di Urbino, nuda e distesa, all’interno di un’ampia stanza, non di uno studio medico al piano alto di un edificio di Manhattan. L’arredo, le decorazioni e l’architettura rivelavano che si trattasse di un ambiente del Cinquecento. Il paziente aveva davanti a sé, dunque, l’opera di Tiziano, la cui figura femminile prendeva ad animarsi ripercorrendo una gestualità che egli ripassava a memoria. Non era la visione della farneticazione, tanto meno la versione animata di quella grande pittura, ma la ricostruzione di ciò che egli aveva già visto altrove, in un tempo precedente. Osservava, pertanto, Lauren nell’atto di coprirsi delicatamente il pube: un tratto iconografico che compare nelle statue classiche di ogni Venere pudica.

Intanto, la professionista, data un’ultima occhiata alla cartella clinica del paziente, lo congeda, facendo ancora una volta attenzione al modo così insistente, senza apparire spudorato, in cui quell’uomo la guarda:

–        Bene, come lei già saprà, d’ora in avanti sarò io ad averla in cura.

–        Le auguro buon lavoro. – aveva risposto lui, semplicemente.

–        Grazie. – restando sorpresa. E subito dopo, un professionale e cortese saluto:

–        Arrivederci e buona giornata, Manfredo.

–        Così, a lei, dottoressa Gaspary.

L’uomo uscito dallo studio lasciò dietro di sé attimi di silenzio, durante i quali Lauren ebbe a ripetere mentalmente: “Così, a lei, dottoressa Gaspary”. Evidentemente, la maniera di esprimersi di Manfredo l’aveva in qualche modo disorientata.

Poi, fissando per qualche attimo il frontespizio della cartella, legge a voce alta il nome del paziente:

–        Manfredo Neri Ardinghi! Ma, come può una persona chiamarsi in questo modo?

E ne ride con il collega analista. Già, un nome abbastanza insolito. Ancora più strano che a portarlo fosse  un signore che si diceva discendente dell’antica famiglia Ardinghi, che gli storici dichiarano estinta già nel 1300. Tuttavia, il nome all’anagrafe del paziente, come si evince da documenti attendibili e assolutamente autentici, era proprio quello. Lauren lo sapeva bene, avendone studiato rigorosamente il profilo. Appartenenti a un nobile casato fiorentino, gli Ardinghi sono annotati in un elenco delle famiglie consolari del 1210. Origini antiche e importanza sociale, unita a disponibilità di mezzi economici caratterizzarono questa famiglia, tra cui non mancarono Priori e Cardinali. Essa è citata addirittura da Dante, nel XVI canto del Paradiso.

Testi medievali affermano che ultimo della loro discendenza è stato Antonio Niccolò di Lotto, che il necrologio di Santa Maria Novella, in Firenze, dice essere stato sepolto in quella chiesa il 25 agosto del 1383. Gli Ardinghi ebbero per arma uno scudo scaccato d’argento e d’azzurro col capo d’oro; colori ricavati da un manoscritto datato del 1302.

Il fatto che si siano estinti verso la fine del ‘300 ha impedito che la loro vicenda genealogica interessasse gli eruditi fiorentini intenti a documentare i precedenti storici delle casate ancor viventi al loro tempo. Povere sono, pertanto, le notizie che di essi danno i manoscritti dell’Archivio di Stato di Firenze.

Ecco, Lauren, mediante una ricerca personale e stranamente divertita, sapeva tutto questo.

Sapeva, in sostanza, tutto quello che c’era da sapere per iniziare a rovistare nella psiche di Manfredo, avendo notizie a sufficienza e materiale clinico concreto circa il motivo per cui egli si trovasse in quel centro psichiatrico. Sapeva di sua zia, Agnese, che abitava da sola in una villa rinascimentale sulle colline di Fiesole. La gentildonna, prima di morire, alla veneranda età di 97 anni, oltre a lasciargli tutti i suoi averi gli aveva pagato in anticipo la cura al Manhattan Psychiatric Center, consigliatole dallo psicoterapeuta che, precedentemente, in Italia, aveva avuto in cura suo nipote.

E sapeva ancora, la brillante dottoressa, che la condizione necessaria, imposta da un atto notarile, affinché Manfredo potesse accedere all’eredità di sua zia, in qualità di suo unico parente, era quella di sottoporsi al ciclo completo delle cure psichiatriche che, appunto, l’anziana signora aveva predisposto per il nipote in seguito a episodi abbastanza sintomatici, dove i disturbi mentali di questi erano apparsi evidenti e abbastanza inconfutabili.

Ma, come si era reso possibile che un uomo in apparenza così distinto, dai segni somatici affabili e gentili, titolare di un lessico fine e con un’educazione di tutto rispetto fosse stato giudicato instabile di mente, insomma, senza giri di parole, un folle in piena regola?

Tutto era cominciato meno di un anno prima, in un bel giorno di primavera.

Manfredo abitava da sempre, e per sempre s’intende un tempo davvero dilatato, nella mansarda di una suggestiva torre medievale, risalente all’XI secolo, situata nel cuore di Firenze, all’interno della più antica cinta muraria della città, accanto a Piazza della Signoria e a due passi dagli Uffizi, dal Duomo e Ponte Vecchio. Ci abitava da solo per gran parte dell’anno, mentre d’estate la divideva, per così dire, con una ricca editrice americana: una elegante signora di 75 anni con i capelli tinti di blu, che l’aveva acquistata dieci anni prima da un agiato antiquario. Già, allora Manfredo a che titolo ne era un inquilino? Presto detto: la torre, in origine, era della sua famiglia. E lui l’ha sempre abitata. Sì, è così.

Riprendendo, dunque, il discorso, il motivo, cioè, che ha portato Manfredo a essere ricoverato al Manhattan Psychiatric Center prende forma, come si narrava avanti, un mattino di primavera, nella sua residenza medievale. Come tutti i giorni si era svegliato di buon’ora. Da un po’ di tempo si divertiva a imitare la gestualità e il rito mattutino che vedeva impegnata la sua coinquilina americana: il caffè fatto con la macchinetta sul gas. Era una sorta di palliativo, un esercizio quasi autoironico, oppure molto semplicemente un motivo di svago. Infatti, egli, nella sua condizione, non era in grado di soddisfare nessun gusto. Non poteva affatto assaporare il caffè che veniva su, bollente, dalla caffettiera. Per dirla tutta, non poteva assaporare un bel niente. Infatti, era privo totalmente di palato, ma anche di tatto e olfatto. Gli restavano la vista e l’udito. Del caffè avvertiva soltanto il tipico rumore di quando viene su ed è pronto da bere. E, quel suono lo faceva sentire in vita più di qualsiasi altra cosa. Lo rendeva partecipe di un rituale che era costretto a osservare.

Insomma, aveva preso a farsi il caffè per darsi arie da umano. Eh, sì, perché come si è abbondantemente intuito, non fosse altro per il titolo, Manfredo, prima del ricovero, era un fantasma. Un fantasma di quelli classici, che ci sono ma non si sentono, osservano da vicino gli altri senza essere visti, passano attraverso le pareti per accedere alle stanze.

Ma, quel mattino, accadde qualcosa di straordinario. Nel prendere la caffettiera che aveva appena emesso il suo caratteristico refrain, espellendo il caffè, Manfredo si scotta! Resta attonito. Non ci vuole credere. Non può crederci. Sa perfettamente che non potrebbe mai accadere una simile evenienza. Nemmeno se mettesse le mani nel fuoco potrebbe avvertire la sensazione della scottatura. È un fantasma. E i fantasmi, appunto, non hanno tatto. Ecco, riflette sui sensi che non ha. Si versa, quindi, il caffè nella tazza e, tremante, lo assapora. Sa di caffè! Ansioso ed emozionato ne prende un altro sorso, gustando per la seconda volta quell’aroma. E, poi, ancora un altro, a gustare fino in fondo un sacrosanto caffè prima di scoppiare in una risata che rimbomba per tutto l’appartamento. “Sono in vita! Sono in vita! Sono in vita!” – grida. Cerca successivamente di ricomporsi. Non riesce a stare in piedi per la forte commozione. Si inginocchia. Respira profondamente, il cuore gli batte veloce. Con le mani, si tocca la faccia e i capelli. Si recupera e corre per mettersi davanti allo specchio più grande della casa, situato nella camera da letto della nuova proprietaria.

Si guarda. Si riconosce. Si piace. “Un’acconciatina qua e là – pensa – e mi rimetterò a nuovo”.

Era già rinato a nuova vita, conservando nella memoria le esperienze pregresse. Ma, era la prima volta che rinasceva nelle vesti della primigenia esistenza, avvenuta nel febbraio del 1230, a Firenze, dove, come Manfredo Neri Ardinghi sostenne a spada tratta le cause dei Guelfi. Morì per una polmonite, a 35 anni, facendo un bagno fuori stagione nei pressi delle sorgenti dell’Arno.

Poi, secoli di buio per riaffacciarsi alla vita tra il Settecento e il Novecento per ben tre volte. Era rinato nel 1760 a Parigi, dove fu Edouard Florian de Ventadour. Aveva preso parte alla Rivoluzione Francese del 1789. Morì ancora una volta a 35 anni, annegando in un affluente della Senna,  mettendo in salvo, però, una giovane donna trascinata accidentalmente dalla corrente del fiume. Ritornò in vita nel 1820, a Milano, come Jacopo Calchi Novati. Prese parte alle Cinque giornate di Milano. Morì puntualmente a 35 anni, in seguito a un malore, nella vasca da bagno. Ma, rinacque dopo qualche decennio, nel 1893, a Novgorod sul Volga, in Russia. Fu Stepan Ivanović Zaskij, idealista irremovibile e settimo di nove figli di una possidente famiglia di tradizioni latifondiste. Partecipò come attivista alla Rivoluzione d’Ottobre del 1917. Manco a dirlo, morì a 35 anni, durante un temporale, colpito in pieno petto da un fulmine mentre era in barca sul lago Ilmen.

A quanto pare, a prescindere dal tempo in cui vivesse e a quale rivoluzione prendesse parte, il soggetto in argomento non aveva una vita lunga. E, cosa da non trascurare, in questa sua ultima rinascita riprende vita non da neonato, ma quando è già un adulto e sembra avere 35 anni. E, poi, essendosi ripresentato in vita nel 2020, l’epoca in cui si svolgono i fatti della narrazione, rimane da chiedersi: da quale rivoluzione egli potrà mai essere idealmente coinvolto, considerata la piattezza inaudita dei tempi di riferimento?

 

TAG: Gli Stati Generali, letteraura contemporanea, Oscar Nicodemo, romanzo d'appendice
CAT: Letteratura

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