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Letteratura

Il senso di colpa e una pistola

di Luigi Vergallo
9 Luglio 2017

Per raggiungerla da Milano dovetti percorrere molti chilometri. La strada era buia e ghiacciata. Inoltre, a me la montagna aveva sempre fatto paura, inducendomi un vago senso di oppressione e di ansia, insomma minaccia.
Però non avevo alternative. Avevo le mie colpe. Mi aveva chiamato con il suo cellulare parlando in modo confuso e dicendomi qualcosa a proposito di un uomo, degli alberi, dell’oscurità attorno a lei. Poi la linea era caduta. Avevo provato a richiamarla una volta, poi due, poi continuamente e sempre senza risposta. Ma avevo capito. Feci appello alle mie ultime forze e a un residuo di coraggio e uscii per la strada. Rubai la prima macchina che trovai. Era una yaris, abbastanza anonima da essere sicura almeno per il tempo necessario a allontanarsi. Arrivai a casa sua un paio di ore più tardi. La macchina si era arrampicata sulla montagna senza difficoltà, nonostante, al suo interno, io sudassi di paura e di rabbia. Una rabbia che derivava dal mio senso di colpa. Aprii la porta e la trovai lì. Era seduta su un tappeto, accanto al fuoco. Sopra le sue spalle, vedevo la luna piena attraverso la finestra che, la conoscevo, aveva certo pulito nel corso della giornata che era finita. Si teneva le gambe  con le braccia. Portava una camicia da notte blu. Era scalza. Aveva le unghie dei piedi laccate di rosso. Mi fissò un momento e poi distolse lo sguardo. Mi sedetti al suo fianco. “Posso raccontarti una storia?”. “Sì, puoi raccontarmi una storia”. Parlai a voce bassa per un paio di ore. Si addormentò con la testa sulle mie gambe. Le accarezzai i piedi e poi la coprii. Mi alzai adagiandola sul tappeto. Aprii una bottiglia di rosso e caricai la pistola.

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