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Letteratura

Il trasferimento

di Filippo Cusumano
3 Dicembre 2021

Era triste quella sera il commissario Pane.
Al mattino era stato convocato dal questore che gli aveva comunicato che era stato deciso il suo trasferimento ad altra sede.
“Penso che la notizia che sto per comunicarle le farà molto piacere- aveva detto il questore- la sede che le hanno assegnato è Palermo e se non sbaglio lei viene da quelle parti”.
“Effettivamente, signor Questore, sono di Carini, che è a pochi chilometri da…”
“Conosco, conosco- lo aveva interrotto sbrigativamente l’altro- ho prestato servizio a Palermo, quando lei probabilmente ancora non si sognava di entrare in polizia”.
Erano seguite alcune frasi di circostanza. Anche queste sbrigative e fredde come era nello stile del questore.
Chissà come sarà felice mia madre, si disse il commissario lasciando la questura..
Donna attiva ed energica, nonostante l’età abbastanza avanzata, sarebbe stata felicissima di tornare ad occuparsi del figlio.
Persi ormai di vista gli amici del paese e gli ex compagni di università, sparsi in giro per il mondo zii e cugini, la madre costituiva per lui l’unico consistente legame con la terra d’origine .
Il commissario pensò che quello era l’unico aspetto positivo della faccenda.
Non mancavano in compenso gli aspetti negativi.
In primo luogo Palermo. Una città caotica, chiassosa, rutilante, sempre più assediata dal cemento e dalla volgarità. Ben diversa da quella che aveva conosciuto negli anni sessanta, quando vi “scendeva” ogni giorno da Carini per frequentare le scuole superiori.
In secondo luogo i rischi del mestiere.
Era diventato poliziotto per caso, non certo per vocazione.
Una volta laureato, aveva partecipato a diversi concorsi insieme a decine di migliaia suoi coetanei, in prevalenza provenienti, come lui, dalle folte schiere dei figli della piccola borghesia meridionale. L’unico concorso nel quale gli era riuscito di ottenere un piazzamento discreto era stato quello per funzionari di polizia.
Ma per lui era un lavoro come un altro.
Si sforzava di farlo meglio che poteva, ma non amava l’avventura e non aspirava al martirio.
Prima del trasferimento a Venezia aveva sempre operato in zone ad alta densità criminale e in più di un’occasione si era trovato a correre rischi veramente notevoli.
Una volta, mentre aspettava il suo turno dal barbiere, a Catania, era stato costretto ad intervenire per difendere un cliente da un agguato.
Se ne stava su una poltroncina, serenamente immerso nella piacevole contemplazione delle immagini patinate di una rivista per soli uomini, quando due individui incappucciati si erano introdotti nella barberia, spianando delle mitragliette.
Lanciata in un angolo la rivista, il commissario aveva estratto velocemente la pistola d’ordinanza dalla fondina e aveva aperto il fuoco contro i due angeli sterminatori, smettendo solo dopo aver vuotato il caricatore.
Alla sparatoria erano seguite molte polemiche, ma alla fine tutti, tranne ovviamente i parenti e i compari delle vittime, erano stati dalla parte del commissario e ne avevano esaltato la tempestività e il sangue freddo.
Anche i giornali nazionali, la radio e la televisione avevano parlato della vicenda e lui era stato sbrigativamente soprannominato il “commissario sceriffo”.
Lui aveva incassato con buona grazia gli elogi.
Intervistato decine di volte, aveva anche diffusamente rappresentato rammarico per l’accaduto e dolore per le vite umane che era stato costretto a spegnere.
Frasi di prammatica, sentimenti che non provava.
Dentro di se si sentiva ancora talmente incazzato nei confronti di quei due che lo avevano messo in quella terribile situazione che, se avesse potuto li avrebbe ammazzati di nuovo.
Altro che tempestività e sangue freddo!
Aveva agito in preda al terrore più grande della sua vita. Mentre sparava, immerso in uno stato di trance e augurandosi che il caricatore durasse all’infinito, riusciva a pensare solo che la sua vita stava per finire.
Più tardi aveva confidato alla madre: “Mi sono visto perso, come uno che cade in un burrone. Cosciente ed illeso, ma anche sicuro di non avere scampo. Quando ho finito di sparare ed ho capito che quei due cornuti se ne erano andati al creatore, mi è sembrato di rinascere. So di dire una bestialità, ma quel pomeriggio ho avuto, nel giro di pochi secondi, uno appresso all’altro, il momento più angosciante e il momento più liberatorio della mia vita”.
Il trasferimento a Venezia, oltre a dargli il modo di conoscere una città di cui si era innamorato e nella quale aveva vissuto bene, aveva finalmente dato al suo mestiere, dopo che lo aveva praticato in contesti così pericolosi per anni, quasi le cadenze di un lavoro normale, un lavoro come tanti altri.
Senza coinvolgimenti profondi, senza mettersi in gioco o spendersi più di tanto.
E adesso ricomincia la giostra, pensava il commissario, con avvilimento, quella sera.

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