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Letteratura

La ragazza del ristorante

di Luigi Vergallo
19 Gennaio 2018

Il giorno in cui il mondo finì, suo nonno l’aveva toccata. L’avevo trovata sdraiata nel retro del ristorante, accucciata, in realtà, tra un tavolo e il muro. Anni dopo ho pensato all’assurdo di quella ragazzina cresciuta a ridosso di una cucina, diventata magra e poi triste. Era bella. Era chiara. Aveva avuto fino a quel momento una luce. Lentiggini rosse, occhi verdi, un lampo li percorreva e quasi mi metteva paura. Lei mi parlava gettando quegli occhi nei miei, e io distoglievo lo sguardo. Fissavo le ragnatele sui muri, poi i quadri, le linee dell’imbiancatura e anche fuori dalla prima finestra.
Il giorno del suo funerale suo nonno non c’era. C’era invece suo padre. Sai, mi aveva detto lei una settimana prima, non riesco a ricordare quel giorno. Però ricordo lui, nudo, nel lettone con me. Io la guardavo e tacevo. Non è stata una cosa cruenta, non è mai una cosa cruenta, aveva aggiunto. Sembrava volermi rassicurare. Sembrava voler controllare tutto, e fino all’ultimo giorno. Intanto si allenava alla panca. Quando aveva finito di parlare avevamo provato alcune proiezioni del judo. Me le dava quasi sempre. Era più feroce di me. Si allenava di più. Si allenava sempre, in realtà. Era feroce anche in quello. Nessun uomo aveva più potuto toccarla, dopo suo nonno. Io non ci avevo nemmeno pensato. Mi bastava prenderle di santa ragione. Mi accontentavo di quel rapporto esclusivo. Mi accontentavo di essere un pozzo, il pozzo in cui lei buttava – mille volte – il ricordo di quel giorno lontano.
Io suo nonno lo odiavo. Più di una volta, negli anni dell’adolescenza, negli ultimi anni della vita di lei, avevo seriamente considerato l’idea di ammazzarlo, e lei lo sentiva. E mi prendeva sul serio. Se farai quel che pensi – diceva fissandomi, mentre io fissavo il soffitto -, ti ammazzerò, di botte e di baci. Poi mi abbracciava. Tu sei mio amico, diceva. Lo so, rispondevo, e non ne sono felice. Perché, mi chiedeva. Perché mi fai male.
Poi ci cambiavamo e uscivamo da lì. Andavamo al Parco Sempione. Le coppie si baciavano e lei commentava che schifo. Tu sei bello, mi diceva, dovresti farlo anche tu. Io non rispondevo e guardavo i piccioni. Pensavo a suo nonno sepolto. Guardavo i muscoli delle sue braccia e pensavo che no, non dovevo pensarci.
Il giorno in cui il mondo finì mi chiamò sua cugina. A. è morta, dovresti proprio venire. Lo so, le avevo risposto, è una cosa che stavo aspettando. Avevo messo giù il telefono, avevo pianto, avevo cercato mia madre. Mia madre mi aveva abbracciato. Non piangere, non piangere più. Ripeteva a suo figlio di non piangere più. E io soffocavo di pianto, sentivo scariche violente nel profondo dello stomaco e sognavo il sangue di suo nonno, di suo padre, di sua nonna e sua madre. Odiavo tutta quella viltà, tutto quel conformismo, tutti quei pezzi di merda che finalmente avrebbero pianto la loro figlia, la loro nipote, la ragazza che aveva diviso con me la sua vita, per quindici lunghissimi anni. La ragazza dei pomeriggi di noia, che mai nessuno aveva potuto toccare, tranne suo nonno.

Ora vado a trovarla al cimitero, in alcune domeniche prive di sole. Mi siedo, sistemo due cose. Ripenso al suo desiderio di vita, e al mio desiderio di morte. Ci eravamo conosciuti che io ero buio e avevo bisogno dei suoi momenti di luce. Quando sarebbe servito il contrario, quando dentro di lei un crepuscolo senza fine cercava un appiglio di luce, e lo cercava dentro di me, io avevo fallito. Anche per quello promisi la morte a suo nonno. Suo nonno, che morì il giorno dopo.

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