Ricordo di Pietro Citati: “La malattia dell’infinito”

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29 Luglio 2022

Per tutta la vita ha avuto una malattia che non si sa se fosse una passione, una dote consustanziale al suo essere, senza della quale si spegneva, si ammutoliva, si annichiliva. Quella malattia era una gioia, una felicità al contempo. La sua pulsione vitale, la ragione per la quale valeva la pena di vivere: Citati voleva possedere nella sua essenza l’infinito.

Ecco aveva, soffriva “la malattia dell’infinito”.

Il libro è l’oggetto supremo, che accoglie in sé tutta la vita reale, quel bambino che in questo momento attraversa la strada, quella nuvola che proprio ora splende sotto i raggi del sole; ma è anche la vita fantastica, immaginata, impossibile; questa mescolanza affascina come la più inebriante delle bevande. La lettura è godimento compiaciuto e goloso, degustazione di leccornie, di cibi buonissimi. La letteratura è un’arte che si pratica per conoscere le vibrazioni della luce, dei colori, dell’aria, della notte ed il libro, quell’oggetto di carta, nega il movimento e la casualità  della vita, perché tutto è in quel romanzo.

L’infinito lo toccava con la letteratura, che non si sa come possa essere definita, una menzogna forse come sosteneva il suo caro amico Giorgio Manganelli, ma necessaria. I romanzi e le poesie di cui essa si compone costituiscono lenti deformanti della fantasia che fanno parlare il cuore.
Quando dalle colonne del “Corriere della Sera” prima e poi da “Repubblica” leggevi una recensione di Pietro Citati, si correva in libreria a comprare quel libro, già magnificamente descritto dal grande giornalista scrittore. Ne svelava l’anima, come ha scritto Giorgio Montefoschi.
Citati ci ha insegnato anche a scrivere.

Leggerlo era edificante: la sua prosa era inclita, deliziosa, musicale, lirica, sontuosa.
Ho copiato ed imparato a memoria passi dei suoi scritti.
Ha recensito migliaia di volumi, ha spaziato in tutta la letteratura europea. Di quella russa in particolare ne aveva una spiccata predilezione: Dostoevskij, Tolstoj, Nabokov: nessuno li ha raccontati meglio di lui. Allo stesso modo il libro su Kafka è un capolavoro.
Una delle sue opere più belle tuttavia ritengo sia stato il saggio su Leopardi.
Gli ha dedicato uno studio profondo, matto e disperatissimo. Perché da Leopardi è stato contagiato da “la malattia dell’Infinito”.
L’infinito è in primo luogo incompiutezza, incertezza, evanescenza, qualcosa di inafferrabile, che scappa via, che lo avverti, ma solo sul piano dell’illusione magica, dell’eterea immaginazione. L’infinito sovvien l’eterno, lo ha detto anche Blaise Pascal.

Citati amava anche Ulisse che aveva “la mente colorata”.
Questo è il titolo del libro straordinario che gli ha dedicato e che è stato tradotto in molte lingue.
Perché Ulisse aveva la metis, l’astuzia del greco e ci aveva insegnato “ il costrutto del pensiero”, la razionalità dell’agire.
Ma possedeva anche la spinta, il conato, la fede nella conoscenza e la smisurata grandezza di sfidare gli dei.
Era il prediletto di Atena che fece quel gran miracolo di farlo tornare giovane quando incontrò dopo dieci lunghi anni Penelope.
Dice Citati si compie l’agnizione, il riconoscimento dell’amore, della fedeltà. Nasce in quel talamo la famiglia e si fonda la civiltà occidentale.

Siamo più poveri senza i suoi scritti, magnetici, avvolgenti, sinuosi, poesie in prosa.

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