“Sarò sempre quello che ha cantato la canzone dell’Infinito in un pollaio”

:
7 Settembre 2017

“Non sono niente.
Non sarò mai niente.
Non posso volere d’essere niente.
A parte questo, ho in me tutti i sogni del mondo…”

Così inizia “Tabaccheria” di Fernando Pessoa, uno dei più grandi poeti del 900.
Stando alla finestra della sua stanza, Pessoa scruta la strada sottostante, un’angusta via di Lisbona in cui campeggia l’insegna di una tabaccheria e fa delle riflessioni sulla sua vita.
E quella tabaccheria diventa metafora dell’esistente, contrapposta al sogno:

Oggi sono diviso tra la lealtà che devo
alla Tabaccheria dall’altra parte della strada, come cosa reale dal di fuori,
e alla sensazione che tutto è sogno, come cosa reale dal di dentro.

Fernando Pessoa è un uomo schivo. Conduce una vita apparentemente mediocre.

Il lavoro che gli consente di vivere è molto prosaico e sicuramente lontano dal dargli la ben che minima soddisfazione artistica o emotiva (parla e scrive correntemente inglese e francese e questo gli dà modo di lavorare per varie ditte di import export come traduttore di corrispondenze commerciali).

Ma in lui vive un mondo fantastico di inesauribile intensità unito ad una passione devastante per la letteratura.

Tutto quello che gli accade, dai piccoli fatti esteriori della vita quotidiana alle magnifiche e illuminanti riflessioni sulla condizione umana, urge di trasformarsi in parola scritta.

Sono fallito in tutto.
Ma visto che non avevo nessun proposito, forse tutto è stato niente.

Quello che ha realizzato con la sua poesia gli sembra niente rispetto a quello che aveva sognato di realizzare:

Genio? In questo momento
centomila cervelli si concepiscono in sogno geni come me,
e la storia non ne rivelerà, chissà?, nemmeno uno,
non ci sarà altro che letame di tante conquiste future.
No, non credo in me.
In tutti i manicomi ci sono pazzi deliranti con tante certezze!
lo, che non possiedo nessuna certezza, sono più sano o meno sano?
No, neppure in me…
in quante mansarde e non-mansarde del mondo
non staranno sognando a quest’ora geni-per-se-stessi?
Quante aspirazioni alte, nobili e lucide -,
sì, veramente alte, nobili e lucide -,
e forse realizzabili,
non verranno mai alla luce del sole reale né troveranno ascolto?

La riflessione su ciò che avrebbe potuto essere e non è stato diventa incalzante, il sarcasmo con il quale il poeta fa un’analisi della propria “riuscita” è spietato:

Ho sognato di più di quanto Napoleone abbia realizzato.
Ho stretto al petto ipotetico più umanità di Cristo.
Ho creato in segreto filosofie che nessun Kant ha scritto.
Ma sono, e forse sarò sempre, quello della mansarda,
anche se non ci abito;
sarò sempre quello che non è nato per questo;
sarò sempre soltanto quello che possedeva delle qualità;
sarò sempre quello che ha atteso che gli aprissero la porta davanti a una parete senza porta,
e ha cantato la canzone dell’Infinito in un pollaio,
e sentito la voce di Dio in un pozzo chiuso.
Credere in me? No, né in niente.

Poi la tabaccheria riporta il poeta al tangibile, al reale: dalla sua finestra il poeta osserva uno scambio di gesti fra il tabaccaio e un cliente, un acquisto, il saluto tra i due.

E’ l’irrompere del reale, quella serie di gesti. Qualcosa che il poeta vorrebbe allontanare da sé:

Mi rialzo energico, convinto, umano,
con l’intenzione di scrivere questi versi per dire il contrario.

E mentre si siede al tavolo per scrivere quei versi, il poeta si accende una sigaretta, ne segue il fumo  “come se avesse una sua rotta”, ne assapora il gusto, si gode un “momento sensitivo e competente, la liberazione da tutte le speculazioni e la consapevolezza che la metafisica è una conseguenza dell’essere indisposti”. 

Il poeta a quel punto si allunga sulla sedia e continua a fumare: il fumo, come la tabaccheria, come il cliente della stessa, tornano ad essere una presenza forte, sono la rappresentazione perfetta di un “mondo senza ideale nè speranza”

Finché il Destino me lo concederà, continuerò a fumare.
(Se sposassi la figlia della mia lavandaia magari sarei felice.)
Considerato questo, mi alzo dalla sedia.
Vado alla finestra.
L’uomo è uscito dalla Tabaccheria (infilando il resto nella tasca dei pantaloni?).
Ah, lo conosco: è Esteves senza metafisica.
(Il padrone della Tabaccheria s’è affacciato all’entrata.)
Come per un istinto divino Esteves s’è voltato e mi ha visto.
Mi ha salutato con un cenno, gli ho gridato Arrivederci Esteves!, e l’universo
mi si è ricostruito senza ideale né speranza, e il padrone della Tabaccheria ha sorriso.

 

P.S. Pessoa era un uomo affascinante, non bello, anzi quasi comico, con la sua andatura dinoccolata e quasi svolazzante e l’aria pensosa e perennemente distratta, ma sicuramente in grado, se solo lo avesse voluto, di trovare una donna con la quale costruire un legame serio e duraturo.
Cosa che non accadde mai proprio per la sua volontà, precisa ed ostinata, di dedicare tutto se stesso alla letteratura, al mondo fantastico che con la sua arte era in grado di evocare.

Ho visitato Lisbona, la sua città, una decina d’anni fa.

Bellissima. Ma che delusione i luoghi che ricordano il poeta!
Il ristorante dove lui mangiava è diventato una trappola per turisti, la casa dove abitava è stata completamente restaurata sia dentro che fuori e questo impedisce di apprezzare l’ambiente in cui veramente viveva il poeta.

L’unica cosa che la connota come la casa del poeta è il fatto che in un angolo ci sono un suo vecchio baule, una scrivania ed una teca con alcuni suoi manoscritti originali.

Ma non c’è il suo letto, non c’è l’armadio nel quale teneva i suoi vestiti, il comodino sul quale appoggiava i suoi libri, la cucina in cui si preparava la colazione. Niente di niente (e sì che bisogna attraversare la città per arrivare in quella casa!)

E’ riuscito a dileguarsi nel nulla come era nella sua natura. Come a dirci per l’ennesima volta che la sua vita non era importante, che, se desideriamo conoscerlo e frequentarlo, c’è qualcosa di molto più interessante: i suoi scritti .

Anche se un giorno, mangiando divinamente in una piccola e fumosa bettola dell’Alfama, un popolare e pittoresco quartiere di Lisbona, mi sono sentito vicino a lui più che in qualsiasi elegante viale della Baixa.

Perché era un artista geniale e sofisticato, ma anche un uomo dai gusti semplici per quanto riguarda tutte le cose della vita: di sicuro di quella bettola, incurante della trascuratezza e sciatteria dell’ambiente, avrebbe apprezzato, come me in quel momento, la genuinità e qualità del cibo, l’accoglienza familiare e cortese, e perché no?, anche l’irrisorietà del conto.

TAG: Fernando Pessoa, lisbona
CAT: Letteratura

2 Commenti

Devi fare per commentare, è semplice e veloce.

  1. sugo 7 anni fa

    Ora e sempre Pessoa! Colui che mi insegnò ad avere l’infinito nel cuore stando seduto su una panca della stazione di Macerata

    Rispondi 0 0
  2. sugo 7 anni fa

    “Tabaccheria” e la mia prediletta

    Rispondi 0 0
CARICAMENTO...