Un amore di 70 anni fa

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27 Maggio 2019

E’ l’autunno del 1948, quando Ernest Hemingway e la sua quarta moglie Mary Welsh arrivano a sorpresa in Italia.
Partiti dall’Avana, dove abitano, con l’idea di scendere in Costa Azzurra per poi visitare la Provenza e fermarsi a Parigi, sono costretti a far tappa a Genova per un’avaria della nave polacca sulla quale viaggiano.
A quel punto Hemingway si fa prendere dalla nostalgia dell’Italia, paese che aveva conosciuto durante la prima guerra mondiale.
Decide quindi di fare sbarcare dal piroscafo la Buick decappottabile azzurra che aveva appena acquistato e che aveva portato con sè in Europa.

Cerca subito un autista che possa condurlo, insieme con la moglie, nei luoghi della sua giovinezza.
Il portiere dell’Hotel Columbia di Genova, presso il quale gli Ernest e la moglie  hanno preso alloggio, consiglia consiglia loro di assumere per quel ruolo Riccardo Girardengo, cugino di Costante, il grande ciclista degli anni Venti, del quale Hemingway aveva seguito e ammirato le imprese diversi anni prima.

Il viaggio si presenta subito come un’avventura felice.

Sono ormai otto anni che Hemingway non pubblica un romanzo (“Per chi suona la campana” è uscito nel 1940) e comincia a sentire insidiato il suo trono di primo scrittore d’America.
Lo turbano in particolare il recente successo del libro di Irving ShawI giovani leoni e di quello di Norman Mailer, Il nudo e il morto, entrambi pubblicati  quell’anno.
La sua bestia nera è proprio Irving Shaw.
Del collega, che ha scritto un libro che ha per scenario la seconda guerra mondiale, dice:

“E’ uno che non ha mai sentito un colpo d’arma da fuoco, nè ha mai sparato. Eppure si crede migliore di Tolstoj, che invece era un vero ufficiale di artiglieria, uno che aveva combattuto a Sebastopoli, speciale in qualsiasi cosa facesse: bravo a letto, gran bevitore, ma anche capace di chiudersi una stanza a pensare”.

Di se stesso, abituato com’era ai riferimenti pugilistici, Hemingway diceva:

“Per quanto mi riguarda, ho iniziato piano piano ed ho superato Turgenev, ho lavorato duro e ho superato anche Mr. de Maupassant. Per ben due volte ho affrontato Stendhal, e l’ultima volta forse l’ho battuto ai punti. Ma non entrerei mai nel ring contro Tolstoj, sarebbe una follia”.

Il viaggio in Italia degli Hemingway verso i primi di dicembre di quell’anno prende una piega inaspettata.
Durante una caccia alle anatre nella laguna di Caorle, Ernest conosce una ragazza veneziana di 18 anni, Adriana Ivancich, e se ne innamora.
“Un vero e proprio colpo di fulmine”, dirà poi, ricorrendo ad un’espressione un po’ banale, per sottolineare la sua impotenza di fronte al sorgere improvviso di quel sentimento.

Del rapporto tra Ernest e Adriana ci parla Andrea Di Robilant in un libro,  Autunno a Venezia, Hemingway e l’ultima musa, uscito qualche mese fa.
Se Hemingway e Adriana siano stati amanti, dice l’autore del libro, non è dato di saperlo.
Sicuramente, dice Di Robilant, lo negavano entrambi: Adriana ha sempre parlato di una relazione casta, mentre Hemingway definiva la loro relazione  una “cosa sagrada“, quasi a voler attribuire alla stessa una dimensione esclusivamente spirituale.

E un’altra cosa è certa, che quella relazione, che dura otto anni, dal 1948 al 1956, con incontri a Venezia, Parigi e Cuba e una fitta corrispondenza tra i due, dà nuova forza propulsiva alla creatività di Hemingway, che in quegli anni scrive “Di là del fiume e tra gli alberi”, “Il vecchio e il mare”, “Festa mobile”, lavorando anche a due romanzi che vengono pubblicati postumi: “Isole nella corrente” e “Il giardino dell’Eden”.

Spettatrice di quella relazione, che si svolge praticamente sotto i suoi occhi, è la moglie di Hemingway, Mary Welsh, che all’inizio nulla sospetta della infatuazione del marito per Adriana, presa com’è a sospettare di una nobildonna veneziana, che lei chiama “la contessa svergognata”, che sorprende continuamente a fare gli occhi dolci al marito.
Arriva però il momento in cui Mary apre gli finalmente gli occhi.
Hemingway ha appena finito di scrivere “Di là del fiume e tra gli alberi”, la storia della relazione tra un colonnello dell’esercito cinquantenne che si innamora di Renata, una ragazza giovanissima.
Mary, la prima a leggere il manoscritto,  non ha dubbi: Renata è la copia di Adriana.
Per capirlo le basta leggere poche righe:

“Era splendente di giovinezza, i capelli in disordine dal vento. Aveva una pelle chiara, vagamente olivastra, un profilo da spezzarti il cuore, e i capelli scuri che le ricadevano sulle spalle sembravano vivi”.

Un’altra donna al posto di Mary Welsh, dice De Robilant, avrebbe lanciato quel manoscritto fuori dalla finestra e se ne sarebbe andata sbattendo la porta.
Mary invece si trattiene.
Sa che il marito è entusiasta del romanzo, fino al punto di considerarlo addirittura migliore di Addio alle armi e non vuole essere lei a dirgli che lo ritiene pieno di difetti, con dialoghi che si sente di definire “di una banalità senza pari”.

E sa che Ernest da lei si aspetta, più che da ogni altra persona al mondo, sostegno e incoraggiamento.

Il libro di Di Robilant, oltre al raccontarci, con ricchezza di particolari, la relazione tra lo scrittore e la sua “ultima musa”, ci racconta benissimo anche l’Italia di settanta anni fa.
Cosa sia stata per Hemingway quell’Italia lo si capisce, infine, da una battuta, riportata da Di Robilant.
A Lillian Ross, giornalista del New Yorker, che nel 1949 gli chiede notizie del suo viaggio, Hemingway risponde: «E’ stato un po’ come morire e andare in paradiso – un luogo che pensavo di non vedere mai».

 

 

TAG: Adriana Ivancich, Andrea de Robilant, Edizioni Il Corbaccio, Hemingway, venezia
CAT: Letteratura

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