La montagna incantata di Thomas Mann e l’incanto funesto dei nostri tempi

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5 Febbraio 2021

La montagna incantata: magica e imprescindibile opera del grande scrittore tedesco, scritta cento anni fa e ancora tragicamente attuale. Ho impiegato parecchi mesi a leggera, a tratti anche lasciandola sedimentare sul comodino in attesa del suo tempo per riprenderla. Del resto tutto il libro e la narrazione giocano mirabilmente con il tempo, dilatandolo a dismisura o facendo accadere fiumi di eventi in poche pagine. Ma così è la nostra vita che procede spesso a singhiozzo, con lunghi periodi di stasi e improvvisi e repentine svolte, a volte tragiche, sebbene tutti noi preferiremmo uno svolgimento lineare dei tempi e degli eventi.

Non mi è mai capitato di leggere un’opera così magistralmente costruita in modo tale che le ultime cento pagine diano il senso a tutte le 1100 che le hanno precedute. Per tutto il corso del lungo romanzo l’autore prende a braccetto il lettore, portandolo in cima alle vette svizzere, ammaliandolo, incantandolo, potremmo dire anche ipnotizzandolo con una narrazione che sempre più diventa rarefatta come l’aria delle alte cime ammantante di neve, regno di silenzi e spazi eterni. La vita della pianura, con la sua operosità e industriosità, è lontana e se ne sentono solo gli echi; sembra che gli ospiti del sanatorio siano lì per curarsi, ma la pianura e il mondo del sanatorio non sono altro che due ambiti diversi della nostra vita e della nostra società.

Pagine e pagine di, potremmo dire, non-accadimenti all’inizio del XX secolo che Thomas Mann descrive minuziosamente, pagine e pagine di non-vita e di disquisizioni e speculazioni filosofiche che girano intorno a se stesse, spesso terribilmente autoreferenziate. Questo è quello che succede nel sanatorio. La pianura, invece, con le sue attività economiche e la cosiddetta vita reale, è un mondo non rappresentato nel libro, ma altrettanto vuoto e incapace di costruire un destino che non sia di ineluttabile tragedia.

Nel sanatorio Hans Castorp, il protagonista del romanzo, giovane borghese di nazionalità tedesca, conosce un variegato spaccato della ricca società europea del tempo, vuota e priva di prospettive, e tre personaggi chiave: il gesuita Naphta, l’intellettuale razionalista Settembrini, il gaudente Mynheer Peeperkorn. Tanto sono sofisticati i primi due nelle loro argomentazioni, quanto il terzo si esprime (non a caso) con frasi smozzicate che sembrano non avere (e forse non hanno) un filo logico. Castorp, nel suo lungo percorso di crescita interiore al sanatorio, si lega per motivi diversi a tutti e tre, ma alla fine la sensazione è che in tutti questi anni abbia solo girato intorno a se stesso, incapace di dare un senso alla propria esistenza.

Alla fine gli eventi irrompono nella vita di tutti, stravolgendola. Anni e anni di attività operose in pianura, fiumi di parole e dotte argomentazioni tra Naphta e Settembrini, niente di tutto questo è in grado di innescare un processo virtuoso che eviti la catastrofe: l’Europa intera è a bordo del Titanic con una parte delle persone che diligentemente svolgono le loro mansioni quotidiane, altre che aspettano pazientemente di arrivare, altri che nei saloni di prima classe bevono champagne e danzano su filo dell’incombente schianto. Miopia, tragica miopia. È questa la malattia della società europea del XX secolo. Ma cento anni dopo il mondo intero, profondamente diverso da quello descritto nella Montagna Incantata, è a bordo di un nuovo Titanic ed è affetto dalla stessa identica malattia: miopia, tragica miopia.

Nulla è cambiato. Abbiamo sostituito la carta da parati delle abitazioni, abbiamo rinnovato la facciata delle case e della nostra società, ma non abbiamo saputo crescere. Continuiamo a essere vittime del demone della cieca miopia, dell’incapacità di tradurre il pensiero in azioni concrete. Sono passati cento anni e Settembrini e Naphta non cercano più di contendersi la mente del giovane Castorp con dotte argomentazioni; ora il ragionamento si è disgregato in milioni di tweet che muoiono nello stesso istante in cui nascono; esattamente come cento anni fa, ci troviamo però di fronte a fiumi di parole fini a se stesse, poco importa se organizzate in dotti ragionamenti o in tweet leggeri come le piume e che vengono trascinate via dal vento prima che abbiano avuto il tempo di posarsi e germogliare da qualche parte.

L’ultima parola di questo mirabile capolavoro è una parola semplicissima, forse una di quelle di cui si abusa maggiormente, che qui però riesce a non essere vuota retorica, ma ad assurgere a profonda (e amara) verità: amore. L’amore, inteso nella sua più profonda accezione di empatia verso gli altri, l’amore per se stessi e per il mondo che ci circonda, l’amore verso chi condivide la vita con noi, è in effetti il grande assente in tutte le 1200 pagine di questo voluminoso affresco della società del XX e del XXI secolo. Thomas Mann ci dice che senza questa capacità di ascolto e di condivisione, gli esseri umani nella loro singolarità e le società di ieri e di oggi nella loro collettività, non possono avere le risorse per costruire un futuro che prima o poi non vada a sbattere contro un iceberg.

Duemila anni fa una persona finì sulla croce dopo aver predicato per anni la rivoluzione della parola amore.

Thomas Mann, cento anni fa, ha utilizzato una forma espressiva elaborata, complessa ed estremamente ricercata per condurci per mano, pagina dopo pagina, fino alla catastrofe da cui emerge il grido inascoltato della parola amore.

Nel 1967 John Lennon scelse una forma espressiva a lui congeniale per condensare in tre minuti il messaggio che All you need is love, messaggio apparentemente frivolo e legato al movimento del Flower Power del tempo, ma che può essere letto molto più in profondità.

Nel 2020 papa Francesco ha pregato da solo in piazza S. Pietro.

Non importa quale sia la forma espressiva che viene scelta perché l’importate è il contenuto del messaggio. Nel gennaio 2021 Hans Castorp ha lasciato il sanatorio, o forse trascorre ancora le giornate nella bolla incantata delle alte cime svizzere. Purtroppo non lo sappiamo. Ma c’è una cosa che sappiamo con certezza: la nostra società ha sempre più bisogno del profondo e inascoltato significato della parola amore.

Foto di copertina di Matteo Cervone. Titolo: Superficie & Profondità 
https://www.matteocervone.it/

TAG: collettività, empatia, società contemporanea, Thomas Mann
CAT: Letteratura, società

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