Prima regola: Mai delegare. La ricetta per la rivoluzione di Naomi Klein
Ci sono centinaia di persone a riempire l’auditorium dello Spin Time di Roma dove Naomi Klein presenta il suo nuovo libro (“Una rivoluzione ci salverà” nella ottimistica e libera traduzione dell’editore italiano). Per lo più rappresentanti dei movimenti , dai “No Triv” ai comitati campani impegnati ai tempi dell’emergenza rifiuti, fino a qualche rappresentante dei partiti istituzionali. Tutti pongono la stessa domanda: come fare a intercettare il nuovo vento di sinistra, a riproporre anche in Italia il modello greco di Syriza o quello spagnolo di Podemos.
Si rivolgono all’autrice di “No logo” come a un guru, nella speranza di un’illuminazione. E quando la risposta arriva, per molti, è sorprendente: “Non può essere Syriza la soluzione”, dice Naomi Klein, invitando a diffidare del messia di turno. “Anche noi nel 2008 abbiamo fatto questo errore dopo l’elezione di Barack Obama. Abbiamo pensato che quello fosse un punto di arrivo, e ci siamo adagiati, con i risultati che conosciamo. Invece l’imperativo (che il riferimento del momento si chiami Obama o Tsipras) deve essere uno solo: non delegare. Mai. Piuttosto i movimenti che già esistono in Italia sono il segnale che qualcosa si sta muovendo, e da questi bisogna partire”.
Andando contro le recenti dottrine della decrescita, tanto di moda solo fino pochi anni fa, Naomi Klein spiega che il nemico non è la crescita in sé, quanto la maniera in cui attualmente viene concepita. “Parlare oggi di decrescita, e auspicarla, è sbagliato, perché equivarrebbe a chiedere un ulteriore sacrificio a chi già sta soffrendo di più per gli effetti della crisi. Al contrario lo sviluppo è necessario, ma bisogna far crescere alcune parti del sistema, come i cosiddetti “green job”, o i lavori a impatto (ambientale) zero, quali l’insegnamento e la cura di anziani e bambini, ponendo invece un freno ad altri comparti, dannosi in termini di sviluppo umano e ambientale”. E ancora bisogna riappropriarsi e sviluppare in maniera sostenibile settori chiave per il clima, quali quelli dell’energia e dei trasporti. Passare da uno sviluppo “estrattivo” a quello “rigenerativo”.
La via per la rivoluzione indicata da Klein è quella “verde”, nella convinzione che il cambiamento climatico non sia più “una delle tante questioni da affrontare” , come le tasse o la sanità, ma LA questione. “Riportarlo al centro dell’agenda è fondamentale, in particolare quest’anno che terminerà col vertice sul clima di Parigi. Da qui bisogna partire per superare l’ideologia del libero mercato , ristrutturare l’economia globale dalle fondamenta e, infine, creare un sistema politico nuovo. Consapevoli che lo status quo non è più un’opzione praticabile”.
La forza propulsiva di tale approccio sta nel fatto che esso svela con evidenza i limiti del capitalismo e la sua insostenibilità. Perché il cambiamento climatico è anche conseguenza del capitalismo, e le attuali politiche di austerità non fanno che peggiorare le cose. Basti pensare ad alcune recenti catastrofi “naturali”, come l’uragano Katrina a New Orleans, o le inondazioni dell’ultimo anno in Gran Bretagna, ricorda Klein. “In entrambi i casi si nota il duplice effetto dannoso del capitalismo, che causa il cambiamento climatico e, al tempo stesso, impone politiche di tagli alla spesa pubblica (ad esempio quella per la difesa del territorio) rendendo così le popolazioni sempre più indifese”.
E allora perché finora si è fatto così poco? Secondo Klein sbaglia chi dice che i governi non sono capaci di accordarsi sui macro-temi, e che è impossibile superare le diversità di vedute rispetto a clima e sviluppo. “Ci sono stati diversi momenti storici, in particolare quelli di crisi, che dimostrano l’esatto contrario, ossia che una sintesi internazionale è possibile”. La verità è un’altra, e va individuata nel “bad timing”. Quando fu lanciato l’allarme sul cambiamento climatico era la fine degli anni ottanta, il muro sarebbe caduto di lì a poco e Fukuyama avrebbe annunciato “La fine della storia”, e la sconfitta dei poveri. Soprattutto si attraversava un momento trionfale del liberismo, si promuoveva la liberalizzazione di tutti i servizi e settori, e il libero scambio. Insomma, mai come allora risultava difficile contestare il modello di sviluppo imperante.
“Il risultato è che, nonostante qualche accordo e impegno di facciata, siamo andati in tutt’altra direzione: sono stati privatizzati proprio i settori chiave che più incidono sul cambiamento climatico, come quello dei servizi e dei trasporti e si incentivano accordi di libero scambio, come il Ttip tra Stati Uniti e Ue, che promettono di aumentare ulteriormente il volume di emissioni ed espropriare i beni comuni”.
Una prima risposta al modello attuale la stanno già dando i tanti movimenti di giustizia ambientale, che esistono anche sul territorio italiano, capaci di fare fronte comune contro le spinte della “shock economy”. “Tutta la galassia di ‘Blockadia’, opponendosi alle privatizzazioni, allo sfruttamento dei territori, alle espropriazioni dei beni comuni, non ha costituito un fronte in grado di dire solo “no”, ma anzi ha creato le premesse per l’affermazione di una nuova mentalità, che non si fondi sullo sfruttamento delle risorse”.
In più c’è il fatto che, anche “grazie” alla crisi, il compito di cambiare modello globale oggi è più facile di trent’anni fa. Il titolo inglese lo dice chiaramente: “This Changes Everything: Capitalism vs. The Climate”.
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