Dillinger e la deafferentizzazione

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24 Gennaio 2021

Di recente mi hanno chiesto cosa pensassi della possibilità di collegamento che i nuovi strumenti informatici danno, nonostante i limiti, per incontrare persone con cui parlare di argomenti che interessano, per frequentare corsi di aggiornamento, per seguire conferenze, convegni ai quali prima saremmo stati impossibilitati  a prendere parte data la distanza. È evidente che questi aspetti positivi sono indubbi, ma per me, e in genere per molti miei amici e colleghi, la pratica del trascorrere molte ore al giorno collegati in internet, per insegnare, interrogare, lavorare, rende molto faticoso anche il solo pensiero di utilizzare questo strumento ai fini di studio, di svago, di qualunque altra cosa; si tratta in fondo di una sorta di saturazione indotta da internet. La necessità di deafferentizzarsi, almeno per quanto mi riguarda, è desiderata come  una boccata d’aria quando si è lavorato tutto il giorno dentro una stanza; quasi come per un prigioniero l’ora d’aria, quella singola ora d’aria, all’interno della sua prigione virtuale. Ma è solo virtuale?

Che cosa caratterizza il nostro rapporto con i media, il rapporto cioè con l’interazione virtuale  attraverso una piattaforma social, di videoconferenza, come  ad esempio zoom, meet, ecc? Non dovremmo vedere soltanto gli aspetti positivi che queste piattaforme ci mettono a disposizione, ma capire cosa esse siano e cosa inducano in noi: ebbene, effettivamente questi dispositivi informatici non sono soltanto meri strumenti, ma veri e propri meccanismi di alterazione, formazione, riplasmazione della nostra mente.

Michel Foucault ne avrebbe parlato, credo, come di un genere particolare di «dispositivi di soggettivazione». Quegli strumenti di sapere-potere, che modificano la struttura stessa della nostra soggettività, inducendoci a ritenere d’altronde questa modificazione come ovvia, facendocela anzi quasi agognare. Da tempo vado pensando che l’ipertrofia informatica abbia rinnovato quello che era un movimento antico, contemporaneo al cristianesimo, o lievemente precedente, ovvero il movimento gnostico. Qual era la caratteristica della gnosi a ben vedere? Era quella di valorizzare soltanto la psiche, la mente, l’interiorità, ed eliminare completamente il corpo. Il cristianesimo combattè la gnosi esattamente da questo punto di vista, perché esso riteneva che la modalità della salvezza apportata dalla gnosi negasse per principio il corpo, anzi inducesse intenzionalmente l’elevazione del corpo al divino, la salvezza attraverso la spiritualizzazione. Il che, teologicamente, significava negare la resurrezione della carne del Cristo. Nello gnosticismo, cioè, il corpo era completamente escluso, a favore  della salvezza dell’anima, e questo poteva certo sposarsi con la cultura greca, ma  la resurrezione dei corpi era “follia” agli occhi dei greci. Per uscire da questa metafora religiosa e tornare all’oggi, potremmo dire che gli strumenti informatici eliminano la dimensione della relazione materiale, rendono quasi normale la derealizzazione di noi stessi in un rapporto che è soltanto frammentario, totalmente dematerializzato, decorporizzato, deprivato dal tatto, dall’odorato, dalla carezza, dal bacio, dalla stretta di mano o dalla pacca sulla spalla. Costruiscono cioè un’identità puramente virtuale, pneumatica, “elettronica”.

Se si riflette su quello che avveniva non dico 50 anni fa, ma anche solo 20 anni fa, quando cioè ci si riuniva per delle riunioni o al baretto della scuola,  in classe o nell’ambiente di lavoro, in banca o sul muretto del gelataio, c’è da chiederci che cosa abbiamo perduto.  Ebbene, abbiamo perduto quell’insieme di fattori che rendevano vitale il nostro essere lì allora: l’odore del fumo di sigaretta, il profumo della pelle dell’altro, l’odore del sudore, il sentire i rumori della strada che penetravano negli spazi del lavoro, nelle giunture dell’esistenza, e davano spessore al tempo da noi abitato in quelle attività.

Ora sembriamo tanti cervelli nella vasca, siamo sì perfettamente in grado di concentrarci, di seguire al dettaglio (a meno che non vi siano problemi di connessione) quanto ci viene detto. Non ci sono interferenze alla totale attenzione che gli strumenti pretendono da noi; eppure, stiamo perdendo esattamente l’essenziale, la capacità cioè di sentire i nostri corpi in situazione, di distrarci, di aggrapparci ai nostri e agli altri corpi; di litigare davvero, e non dietro uno schermo. Di iniziare gli amori con un bacio e di finirli in una maniera diversa che con un messaggino su watsap.

E non è un caso che questi due anni di lockdown abbiano enfatizzato questo processo, fino a farcelo diventare insopportabile. Molti di noi, me compreso, a un certo punto si sono resi conto che quello strumento in cui avevano confidato e al quale si erano affidati per comunicare con gli altri, non era che una specie di gabbia, era la produzione fantasmatica di una realtà immaginaria, la costruzione di una grande caverna platonica, nella quale la realtà che ci sembrava reale non era altro che la scialba immagine della realtà vera e propria.

E quindi la grande rivoluzione che si annuncia per il futuro e che qualcuno crede ormai sia impossibile, sarà la rivoluzione data dalla  liberazione informatica; appunto: spegnere il computer, i devices, i cellulari,e uscire per strada ascoltando il rumore delle macchine sull’asfalto, il canto degli uccelli nell’aria, sentendo l’odore della pioggia sulla terra.  Accarezzando di nuovo, con le nostre stesse braccia, i nostri corpi nel vento. Come John Dillinger, uscito di nuovo di prigione.

Don’t know where, where they’re going
Don’t know where, where they’ve been

 

TAG: dad, digitale, Dillinger, liberarsi, meet, social media, virtuale, Zoom
CAT: Media

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