Don’t look up! una recensione semi tardiva

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14 Marzo 2022

Don’t look up!

(2021) regia Adam McKay

 

Un ciao a tutti. Esordio con un parziale colpevole ritardo, riguardo la visione del film targato Netflix.

Chi legge troverà qualche piccolo spoiler, molto blando. Nulla che comprometta la visione a sorpresa di un film su cui si è gia parlato sino all’esaurimento, con differenti vedute, com’è ovvio.

Don’t look up! ha creato molto rumore; fatto di per sé comprensibile, dato che si tratta di un compendio dei mali contemporanei visti sotto la prospettiva della metafora del meteorite che distruggerà il mondo e che tutti invocano. Le somme tirate da McKay sono quelle che il meteorite ce lo meritiamo e che la terra è abitata da una massa di idioti, servi del sistema e rabboniti dai media. Alla presidenza USA abbiamo una ex starlette (Meryl Streep) con figlio beota e compromessa in scandali sessuali, che fa parte dell’organico presidenziale grazie al familismo. Che i pochi consapevoli sono nerd marginali inascoltati, che si scontrano contro la realpolitik che, anche davanti all’emergenza delle emergenze antepongono le convenienze e la “ragione di stato”.

Nulla da eccepire, così come nulla da eccepire sulle performance del cast, stellare. E come sono ineccepibili gli snodi narrativi e i conflitti tra i personaggi. Compreso il cedere alle seduzioni del professore nerd Mindy (Leonardo Di Caprio) a un attimo di vanità e di piacere. O l’oltranzismo marginale della dottoranda Dibiasky (eccellente Jennifer Lawrence nella parte). Per non dire del ritratto più riuscito, quello dello scienziato Isherwell anaffettivo-egocentrico-ricattatore dal volto angelico (Mark Rylance formidabile, conciato un po’ alla Peter O’ Toole).

Ma, nonostante tutto collimi e il film scorra perlopiù senza enpasse, il problema di “Don’t look up!” è che una qualsiasi puntata dei Simpsons dice di più e meglio. Gli stereotipi sono molti, certo servono a chiarire un film che in fondo riesce a dire tutto quello che ha da dire senza diventare contorto (e questo è un merito). Ma tirando le somme si respira un’aria manichea (specie il personaggio della presidentessa). Inoltre la realtà è decisamente più diabolica.

In “Dottor Stranamore”, Kubrick aveva raccontato la follia degli uomini di potere sempre col tono della commedia grottesca ma riuscendo decisamente più caustico di McKay. Basti paragonare il personaggio di Ron Perleman, che diventa esornativo laddove in “Stranamore” invece si compiva perfettamente nel personaggio di Slim Pickens a cavallo dell’atomica. Che comunque un risultato lo porta a casa, sia chiaro.

Alla fine il film ci fa pensare, però ci porta anche a semplificare troppo una realtà che ha volti decisamente più mefistofelici e camaleonteschi dei ritratti presenti nel film. Eccezione fatta per il generale che si intasca i soldi degli snack, una delle trovate metaforiche più azzeccate del film. Peccato per i finali in coda; era oltremodo esauriente il cupio dissolvi della fine del mondo, ritratta con tragica ironia e leggerezza. Il film doveva finire lì.

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