Essere giornalisti in Egitto

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17 Settembre 2015

Sembrano ancora vive in Egitto le immagini dei ragazzi che affollano piazza Tahrir, nel cuore del Cairo, chiedendo a gran voce le dimissioni di Hosni Mubarak. “al-sha’b yurid isqat al-nizam”. Il popolo vuole che il regime cada. Era il gennaio-febbario del 2011 e la società egiziana scopriva tutta la propria forza. Soprattutto, l’Egitto scopriva la potenza dell’informazione e dei social media, capaci di aggregare e di far cadere un governo.

Eppure, sono passati poco più di 4 anni e l’Egitto di oggi sembra così lontano da quello sceso nelle piazze per la libertà e la dignità. È un Egitto guidato dall’esercito, dove ci sono leggi che impediscono lo svolgimento della professione giornalistica e che hanno fatto sprofondare il paese al 158° posto per la libertà di informazione, secondo il rapporto di Report Sans Frontiers del 2015. E non è tutto: perché in Egitto ci sono circa 700 giornalisti incarcerati, molti dei quali ancora in attesa di conoscere l’accusa. E la vita nelle carceri non è certo facile.

A raccontarci che cosa significhi essere giornalisti in Egitto è Zeyad S., 33 anni, giornalista e produttore televiso che vive a Londra. La sua storia personale come giornalista parte proprio dai fatti della Rivoluzione del 25 gennaio 2011 e attraversa genuinamente gli ultimi 4 anni. Da testimone oculare, prima, di quello che succedeva nella città di Alessandria, ha lavorato in seguito come giornalista e produttore Tv sia sotto il governo dei Fratelli Musulmani sia sotto quello di Al-Sisi, per poi spostarsi nel Regno Unito.

Come ti sei avvicinato al giornalismo? Perché hai deciso di diventare un giornalista e qual era il tuo lavoro precedente? Fin da quando ero bambino ero affascinato dall’idea del storytelling e di come questo potesse cambiare le cose, poiché dà consapevolezza alle persone. Crescendo, ho studiato Odontoiatria presso l’Università di Alessandria dove divenni membro dell’Associazione Internazionale degli Studenti di Odontoiatria (Iads): ero l’editor dell’Associazione e proprio lì mi sono riavvicinato all’idea di scrivere, vedere le notizie e lavorare con esse. Era settembre 2010 e decisi di lasciare Odontoiatria, concentrandomi di più sul mondo dei media, in particolare sul giornalismo. Nel 2011, con l’avvento della Rivoluzione del 25 gennaio, mi trovavo ad Alessandria e da lì ho cominciato a lanciare tweet e scrivere su Facebook in inglese su quel che stava succedendo perché la copertura era solo in lingua araba. In quella occasione sono stato avvicinato da news agency come la BBC e la CNN, specialmente in occasione del “Mercoledì Nero” (2 febbraio 2011, ndr). Queste agenzie non avevano copertura ad Alessandria e cercavano qualcuno che parlasse bene inglese e sapesse lavorare come reporter. Mi chiamavano al telefono per sapere cosa succedesse. Da lì ho capito quanto i media fossero uno strumento potente nell’informare le persone.

Come si faceva giornalismo sotto il regime di Hosni Mubarak, prima dello scoppio della Primavera Araba nel 2011? Penso che il regime di Mubarak fosse, in un certo senso, astuto. C’erano leggi che incoraggiavano la libertà d’informazione, ma esisteva sempre una linea rossa che non potevi mai oltrepassare. Ad esempio, potevi sempre criticare il governo nei talk show o sui giornali ma non potevi mai parlare del Ministro degli Interni, dell’esercito e del Presidente stesso. Al di fuori di loro, potevi parlare di chiunque e quanto volevi. Un altro aspetto importante è che sotto il regime di Mubarak l’Egitto ha cominciato ad avere giornali e mezzi d’informazione posseduti da privati, mentre prima tutti i media erano sotto il controllo statale. Allora i canali d’informazioni privati rappresentavano per l’Egitto un balzo in avanti enorme.

Gli Egiziani pensavano che le cose sarebbero davvero cambiate con la Primavera Araba e la caduta di Mubarak? All’inizio la gente era scettica, anche se, soprattutto nel 2010, ogni settore della società aveva dei problemi con il regime di Mubarak. Non sapevano in realtà come agire ma quando il 25 gennaio del 2011 la protesta cominciò, molte persone hanno preso parte. Penso che con l’inizio della rivolta tutti pensavano che, caduto Mubarak, le cose sarebbe andate meglio. Quando Mubarak si dimise l’11 febbraio, il giorno seguente molti si svegliarono pensando che l’Egitto sarebbe stato un paese migliore.

Qual è stato il ruolo dei media e del giornalismo durante le proteste? Quello è stato il momento in cui i social media sono diventati la principale fonte d’informazione. Perché all’inizio, la maggior parte dei canali d’informazione privati erano troppo spaventati dall’idea di dare copertura alle proteste e nessuno aveva capito che quella era una rivoluzione. La stampa lo capì probabilmente solo il 28 gennaio, quando il governo perse il controllo della situazione. Inoltre la maggior parte dei giornali e dei canali non sapevano da  che parte schierarsi e cominciarono anche loro a prendere informazioni dai social media. Infatti, tutti noi eravamo in strada e scrivevamo su Twitter e Facebook quello che stava accadendo.

I mezzi d’informazione tradizionali non hanno saputo leggere la situazione. Assolutamente no. Sono stati i social media ad aver svolto un ruolo fondamentale durante la rivoluzione.

 

Dopo la rivoluzione c’è stato un periodo di transizione e si arrivati ad un nuovo regime guidato dai Fratelli Musulmani. Cosa significava essere un giornalista quando la Fratellanza era al potere? Significava molte cose. Prima di tutto, si trattava del primo nuovo regime dopo la Rivoluzione, e tutti avevano grandi aspettative in termine di libertà di espressione. Noi del settore volevamo parlare anche del Presidente, apertamente e a volte usando la satira, volevamo parlare del governo e di temi. Dopo la rivoluzione ci scoprivamo un grosso movimento sociale cui tutti volevano prendere parte. Mohamed Morsi, il nuovo presidente, non credeva nella rivoluzione inizialmente, ma quando questa scoppiò, lui ha combattuto come noi. Noi non avevamo limiti nel criticare i Fratelli Musulmani, Morsi stesso e il governo. Ma rimaneva sempre questa linea rossa in sottofondo: non potevi mai parlare dell’esercito. Tutto, ma mai l’esercito.  Noi, editori e redattori, non sapevamo se i Fratelli Musulmani volessero trasformare l’Egitto in una sorta di stato islamico, e quindi in quel caso l’esercito ci sarebbe stato utilissimo per scongiurare questa eventualità. Anche perché in molte occasioni, sotto il governo di Morsi, nella Media Production City (luogo del Cairo in cui si svolgono la maggior parte delle produzioni dei media) c’erano Islamisti ad aspettare i giornalisti all’entrata degli studi per non farli entrare. Io stesso una volta sono stato colpito sulla schiena dove ho ancora un segno. Loro non volevano che lavorassimo. C’erano molti membri della Fratellanza contro i media, ma la posizione del governo era che, l’Egitto post-rivoluzione, dovesse essere caratterizzato dalla libertà di espressione e ognuno poteva parlare liberamente di tutto.

Qual era l’approccio pratico dei Fratelli Musulmani nei confronti del mondo mediatico? In realtà loro stessi avevano molti canali tv e giornali quindi la situazione assumeva i contorni di una guerra all’interno del mondo dei media. Lo Stato rimaneva fuori. Io non supporto per nulla la Fratellanza, ma, essendo un produttore Tv e giornalista che ha lavorato sia sotto il regime di Morsi sia sotto quello di Al-Sisi, posso dire che avevamo tanta, ma tanta libertà in più con Morsi che con l’attuale regime.

Anche se le idee erano differenti i giornalisti sono mai stati minacciati, arrestati, censurati o picchiati sotto il regime dei Fratelli Musulmani? Come già detto, non dal regime ma da alcuni Islamisti che supportavano il regime. Io sono stato picchiato una volta.

E dal governo, da ufficiali, dalla polizia? Certo, la polizia si schiera dalla parte di ogni regime, quindi quando i Fratelli erano in carica, anche i poliziotti si comportavano come gli Islamisti. Se ad esempio uscivi in macchina con la tua fidanzata, o anche solo con un’amica, la polizia ti fermava e ti chiedeva se fosse tua moglie o se fosse una tua parente. Se non lo era, la polizia chiamava la famiglia della ragazza avvertendola che era in giro con un uomo con cui non era sposata.

Nel 2013 il regime cambia di nuovo e Al-Sisi prende il potere. Come cambiano le cose per i giornalisti? Penso che da qui la situazione sia precipitata, per molte ragioni. Innanzitutto Al-Sisi non era ufficialmente in carica nel 2013, assunse ufficialmente la carica di Presidente nel giugno 2014. Tuttavia, tutti sapevano che l’esercito era dietro a ciò che succedeva il 30 giugno 2013. Le cose si sono fatte complicate perché Al-Sisi spinse i media verso un’opinione unilaterale, cioè che l’esercito fosse la miglior cosa mai accaduta all’Egitto e nessuno era autorizzato, con nessun mezzo, a criticare l’esercito. Io a quel tempo lavoravo in un programma molto noto in Egitto, Baladna bi elmasri, uno dei programmi più liberali in quel periodo, e ovviamente eravamo all’opposizione, ed è stato chiuso subito, il 3 luglio. Non eravamo più utilizzati a girare il programma. Quello è stato il momento in cui abbiamo capito che se pensi in modo differente e non ti attieni alle “veline” rilasciate dall’esercito, allora non puoi lavorare come giornalista.

Un approccio completamente diverso rispetto ai Fratelli Musulmani. Certo. Il nuovo governo ha creato il proprio braccio mediatico con cui decideva di cosa si potesse o non potesse parlare. Loro controllavano tutto, anche chi e quando intervistare, altrimenti non potevi lavorare. Nel 2015 è stata varata la legge anti-terrorismo e c’è una sezione importante che riguarda il giornalismo: nessuno è autorizzato a scrivere o parlare di qualsiasi incidente o problema, finchè non viene rilasciato un documento ufficiale dal governo. Ad esempio, quando la scorsa settimana il convoglio di turisti messicani è stato colpito, noi giornalisti lo sapevamo alle 16 ma nessuno poteva parlarne e il comunicato ufficiale è stato rilasciato solo a mezzanotte. BBC, The Guardian, e molti giornali egiziani hanno lanciato a mezzanotte una breaking news che in realtà era successa otto ore prima.

Come sono trattati i giornalisti dal regime di Al-Sisi? Abbiamo molti giornalisti in galera. Uno di loro si chiama Youssef Sha’aban, giornalista arrestato nel 2013 durante una protesta contro i Fratelli Musulmani in cui stava solo facendo il proprio mestiere, cioè seguire la protesta. Dopo la caduta di Morsi e l’avvento dell’esercito, il nuovo regime ha trovato un modo per attaccare gli attivisti o le persone riaprendo vecchi casi per perseguitarli. Quindi abbiamo molti giornalisti in prigione per dei fatti commessi sotto il governo della Fratellanza due anni fa. Per il regime è un modo molto conveniente per arrestare le persone.

Il mondo conosce solo la storia dei tre giornalisti di Al-Jazeera, ma quanti sono più o meno i giornalisti attualmente presenti nelle carceri egiziane? Centinaia. Penso non meno di 700. Solo perché erano invisi al nuovo regime e stavamo facendo il loro mestiere. Io, ad esempio, so di avere due precedenti che possono essere usati per estromettermi dal mio lavoro se ce ne sarà il bisogno. Useranno uno di questi due casi contro di me. Guarda, i giornalisti di Al-Jazeera sono stati accusati di avere Final Cut sul proprio computer. Chi può fare il giornalista senza avere Final Cut sul Pc? L’accusa dice che, il solo fatto di avere Final Cut, dimostra l’intenzione di falsificare le notizie. E non è l’unico caso. Un altro aspetto, fondamentale quanto terrificante, è che ci sono molti giornalisti in prigione da più di 500 giorni, come Shawkan (Mahmoud Abu Zeid, ndr), che non sono ancora stati accusati di nulla. Sono lì senza accusa. Detenzione temporanea, che è contro la Costituzione e contro la logica. Non sa cosa ha fatto per essere li.

Com’è la vita in carcere per i giornalisti? Le carceri in Egitto sono probabilmente tra le peggiori nel mondo, e non solo per i giornalisti ma per tutti quelli che lì si trovano. Da quello che so dai miei amici attualmente in prigione, sono ammassati nella stessa cella, non possono dormire, non possono andare in bagno perché nemmeno c’è, hanno cibo scaduto, acqua sporca, vengono torturati e  subiscono altri trattamenti che sono contro la legge. Quando cerchiamo di mobilitare le associazioni per i diritti umani per chiedere di visitare e documentare la vita nelle carceri, per legge bisogna chiedere un appuntamento. Quindi, quando vanno ad esempio nella prigione di Elakrab, dove molti Fratelli Musulmani sono detenuti, il governo si prepara e fa vedere che in realtà ci sono campi da tennis e golf, ottimo cibo con buffet. Ma sappiamo che tutti che non è così.

Sei mai stato in prigione? Io mai.

Quali sono altre politiche adottate dal governo per limitare la libertà di stampa? Oltre alla legge contro il terrorismo di cui abbiamo già parlato, ce ne sono molte altre. Io non sono iscritto al sindacato dei giornalisti e molti non lo sono perché per potersi registrare bisogna avere requisiti che non tutti possono soddisfare: però ora si dibatte per istituire una nuova legge per cui chiunque faccia giornalismo, al di fuori dal sindacato, possa essere accusato di frode e quindi essere messo in prigione. Inoltre, membri dell’esercito detengono i gangli del potere economico e quindi decidono quali giornali e quali canali possono avere pubblicità, cioè entrate economiche. Quindi se sei un giornale privato che fa affidamento sulla pubblicità per trarre profitto, e sei inviso al governo, allora non puoi averne e devi chiudere. In questi due mesi ci sono stati molti casi in cui hanno bloccato l’uscita di molti giornali perché i titoli non erano di gradimento del governo. Anche il famoso Tahrir newspaper è stato chiuso due settimane fa. Ci sono leggi che proteggono la libertà di stampa, ma il governo trova sempre un modo per chiudere quando ne sente la necessità. Un altro modo è quello di registrare le chiamate private tra un presentatore o un giornalista famoso e la sua fidanzata: magari parli con lei di qualcosa di poco morale e la tua carriera è rovinata perchè in una società ancora conservatrice non sei più credibile.

Pensi che la mentalità dell’opinione pubblica egiziana sia maturata dopo la Primavera Araba? Penso che dal 2013 a oggi, la gente abbia paura. Tutti hanno paura del terrorismo, della cospirazione internazionale, di qualunque cosa tu parli, loro hanno paura. Hanno paura l’un dell’altro. Per un regime militare nel 2015, l’unica carta da giocare per sopravvivere è quella della paura. Detto ciò, loro non hanno fatto nulla sul fronte economico, anzi su nessun fronte: abbiamo un’inflazione che tocca le stelle e i media, controllati dallo Stato, irradiano paura, dicono che gli altri stati nel mondo ci vogliono eliminare dalla mappa geografica e che le spie sono a ogni angolo pronte ad ucciderci. E quindi le persone si stanno spostando verso una mentalità fascista. È fascismo, ma solo perché le persone han paura: in ogni canale Tv si parla di cose che non stanno succedendo. Che moriremo, che lo Stato Islamico sta arrivando, che la Fratellanza sta arrivando, così come l’America e la Russia.

Pensi che sia il fallimento della Primavera Araba? No. (secco, perentorio, istantaneo ndr). Ogni cambiamento politico viene da un cambiamento sociale. Io credo che la Primavera Araba abbia prodotto un’enorme ondata di cambiamento sociale in Egitto. Le persone si sentono di avere più potere: ci sono persone che si identificano come atei, altre come omosessuali, altre che vivono da sole, senza famiglia.

Ci può essere cambiamento sociale anche quando i media sono controllati? I media sono il veicolo attraverso cui passa il cambiamento. Esatto ma non penso che ora il movimento sociale abbia bisogno dei media; i media riflettono il cambiamento che avviene in strada. Il movimento sociale, specialmente nei paesi musulmani, può venire solo dalla strada, dal basso e potrebbe, come anche no, essere riflesso dai media. Ora c’è un movimento sociale, e nessuno può negarlo, che non viene appropriatamente riflesso dai media, anzi è combattuto. Molti media denunciano la perdita dei valori, ma ora le persone sanno di avere il diritto di essere quello che vogliono. Io credo che il cambiamento sociale stia avvenendo, le persone cercano la conoscenza in campi diversi e ciò è importante.

Sapresti immaginare un futuro per il giornalismo in Egitto? Penso che nessuno possa rispondere in questo momento. Quello che io credo è che nel 2011 siamo stati in grado di creare una città parallela a Piazza Tahrir. C’era un centro responsabile della gestione dei social media. Penso che ora abbiamo molte persone veramente abili e professionali nel giornalismo e nei media in generale. Troveremo dei modi, e qualcuno di noi li ha già trovati, di lavorare su forme alternative di media che il governo non saprà gestire. C’è una legge per cui puoi essere arrestato per un Tweet, uno stato su Facebook o una fotografia e non puoi parlare di ciò che vuoi. Ma penso che le cose potranno essere cambiate solo da noi e dobbiamo trovare soluzioni non convenzionali per raggiungere le persone e obbligare il governo a fare i conti con noi.

TAG: egitto, giornalismo, informazione
CAT: Media, Medio Oriente

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