L’hotel di Banksy a Betlemme: camera con vista sul conflitto
Said, la nostra guida, ci indica il punto di interesse, chiedendoci di non scattare foto: a cento metri da noi, un adolescente esile ed agile sta lanciando sassi contro una torre di cemento armato a guardia del muro. Subito accanto si apre un massiccio portone di metallo e ne escono due uomini in divisa. Si ode uno sparo. Said comincia a correre verso un riparo e la nostra comitiva con lui. Nel parco giochi accanto a noi, una madre velata si affretta a portare via i suoi due bimbi: avranno uno due e l’altro un anno. Gli altri bambini e ragazzini continuano a giocare a calcio e alle giostrine, noncuranti. Il tour è finito; non c’è più niente da vedere: torniamo indietro al nostro albergo.
Said è una delle due guide che lavorano per conto del Walled Off, letteralmente “il murato fuori”: così si chiama l’hotel ideato da Banksy, l’artista inglese dall’identità sconosciuta, e inaugurato lo scorso 20 marzo. Il progetto artistico è stato voluto appositamente nella città palestinese di Betlemme, accanto al muro che divide Israele e Palestina, per commemorare il centenario della dichiarazione Balfour, il documento con il quale l’allora ministro degli esteri inglese, Arthur Balfour, prometteva la stessa terra – che all’epoca stava passando dal dominio turco a quello britannico – a due popoli, senza prevedere quello che ne sarebbe conseguito.
L’albergo è, provocatoriamente, in stile coloniale, quasi sfarzoso tra le macerie che circondano il muro. È un ricettacolo di opere d’arte: ogni angolo ne rivela una, portatrice di un messaggio preciso di Banksy, tanto che Issa, uno dei camerieri in divisa, con orgoglio mi invita a guardare l’edificio attentamente dentro e fuori. Per lo più le opere esposte sono incentrate sul muro, ma ce ne sono alcune che mirano a ricordare anche le altre crisi umanitarie in corso, come quella dei migranti che affogano nel tentativo di raggiungere l’Europa via mare. Insomma è una chiamata in causa dell’Occidente e di tutto il mondo, oggi più distratti, presi soprattutto dai problemi interni.
Il progetto artistico, però, come accennavamo, non si limita alla struttura ricettiva in se stessa. Infatti ne fanno parte due giri provocatoriamente “turistici”, condotti da due guide palestinesi: il primo è una ricognizione sullo stato di avanzamento del muro e delle colonie israeliane all’interno del territorio palestinese, con espropri facilitati da leggi scritte ad hoc; il secondo invece è una visita a uno dei più longevi campi profughi palestinesi, quello di Aida a Betlemme. Oltre a ciò, all’interno dell’hotel è prevista una mostra sulla storia recente del conflitto, focalizzata soprattutto sul periodo a partire dalla costruzione del muro nei primi anni 2000, mentre, all’esterno dell’albergo, c’è una “bottega di graffiti”: i turisti sono invitati a lasciare il proprio messaggio di pace sul muro.
Appare chiara l’idea di base del progetto: attirare a Betlemme le migliaia di fan di Banksy per dirottare la loro attenzione sul conflitto, in modo che possano tornare a casa più consapevoli della situazione. E funziona: nella hall e sulle scale dell’edificio incontro ospiti provenienti da Austria, Inghilterra, Canada, Cina, Giappone. Le persone geograficamente più lontane dal conflitto sono, giocoforza, le meno informate, ma anche una ragazza austriaca che partecipa con me ai giri “turistici” mi confida tra lo stupito e un vago senso di colpa: “Mi aggiorno troppo poco su quello che accade qui”.
E così il conflitto dal punto di vista palestinese, indubbiamente la parte più debole militarmente, appare in tutta la sua violenza davanti ai nostri occhi e alle nostre fotocamere. L’elenco è lungo: gli autisti palestinesi che si sentono umiliati ai check point dal dover aspettare il cenno del capo di soldati appena maggiorenni, dallo sguardo ancora aperto, a loro volta costretti dalla leva, le armi più grandi di loro; il degrado del campo profughi con le case traballanti dalle porte sempre aperte, i fili della luce scoperti, le taniche sul tetto per poter bere d’estate, e attorno i cumuli di immondizia che nutrono frotte di ratti e gatti randagi; le bandiere dell’Onu, puramente simboliche, perché “i funzionari da queste parti, con i loro completi firmati non mettono piede”, spiega Said; i bambini palestinesi che giocano per strada e addosso al muro, con l’inconsapevolezza dell’età, mentre gli adolescenti già lanciano sassi; la tv locale che passa video musicali in cui gruppi di ragazzi in campeggio giocano a sparare con fucili d’assalto. E ancora: le limitazioni al diritto di lavorare, circolare e accedere ai servizi più basilari, come quelli sanitari, a seconda che tu sia un palestinese cittadino israeliano (1,3 milioni), solo “residente” a Gerusalemme (200mila) o “frontaliero” (2,5 milioni) e in quest’ultimo caso devi anche pagare giornalmente il passeur per andare a guadagnarti da vivere in Israele evitando di essere respinto ai check point, possibilità non così remota; l’impossibilità di esportare prodotti palestinesi in territorio israeliano ma non viceversa, vincolo facilitato dal fatto che porti e aeroporti sono in mano israeliana; l’obbligo di dipendere da energia, acqua e internet israeliani, forniti in maniera più scadente al di qua del muro; il minore ritorno delle tasse in welfare e servizi per i palestinesi “cittadini” e “residenti”, l’80% dei quali è sotto la soglia di povertà; lo sciopero della fame dei leader palestinesi in carcere. Il dolore che si respira con la polvere; il muro che soffoca con la sua presenza.
E Gaza? “Di Gaza non si può nemmeno parlare – taglia corto Said – Ci vivono 1,5 milioni di palestinesi in appena 365 km quadrati: uno dei luoghi più popolosi al mondo”. “Lì, con la presenza di Hamas, il partito fondamentalista al potere, gli israeliani non possono entrare – spiega Mohamed, l’altra guida – al contrario di qui, nella West Bank, dove, in base agli accordi tra Israele e Fatah, il partito moderato che da noi ha preso più voti, possono venirci a prendere nelle nostre case e la nostra polizia è impotente. Ma se lì hanno più sicurezza, non hanno una vita quotidiana: solo macerie”.
“Prevediamo che il conflitto tornerà ad inasprirsi: l’ostilità è nell’aria. Presto avremo una nuova intifada, la terza (evidentemente non contano quella cosiddetta “dei coltelli”, Ndr)”, affermano concordi Said e Mohamed esprimendo preoccupazione: entrambi sono moderati e pensano che un’escalation porterà solo altre tragedie. “Il mondo musulmano troppo spesso ci ha strumentalizzati per raggiungere altri obiettivi – chiosa Said – La verità è che se la comunità internazionale si dimenticherà di noi, fornirà un alibi alla violenza di Hamas”.
Il progetto di Banksy dunque raggiunge il suo obiettivo ma dimentica la voce israeliana: a loro è concessa solo una piccola targa all’interno del museo, intitolata “Il muro: l’opinione pubblica israeliana” e che recita testualmente: “La maggior parte della popolazione israeliana di origine ebraica ha sostenuto la costruzione del muro. Israele è una potenza militare dominante nella regione, ma molti ebrei israeliani tuttavia sentono che loro e il loro paese fronteggiano una costante minaccia alla loro esistenza. Molti ebrei oggi hanno nonni che hanno sofferto persecuzioni estreme durante la loro vita, e l’antisemitismo è tuttora dilagante nel mondo. I sentimenti dei nazionalisti ebrei in Israele sono sempre stati forti”.
Un messaggio chiaro e condivisibile, ma il loro punto di vista resta poco spiegato rispetto alle ragioni palestinesi, per cui vale la pena citare qui l’edizione 2016 del rapporto annuale diffuso dal ‘Centro Kantor per gli studi sull’ebraismo contemporaneo’ in collaborazione con il ‘Congresso ebraico europeo’ presentato all’Università di Tel Aviv: l’innalzamento delle misure di sicurezza, anche per via delle minacce terroristiche dello Stato islamico, ha fatto precipitare le aggressioni fisiche contro gli ebrei nel mondo. Questo calo è anche dovuto al fatto che gli stessi ebrei per prudenza sempre di più evitano di indossare i loro abiti tradizionali fuori da Israele (per lo più, invece, le altre religioni non hanno alcun bisogno di autolimitarsi). Tuttavia se gli attacchi fisici sono calati, l’odio non è diminuito, come dimostra il proliferare di insulti antisemiti sul web: uno ogni 83 secondi, secondo uno studio condotto dal Congresso ebraico mondiale. Gli stessi studi dimostrano che l’immigrazione dai paesi musulmani non ha aumentato l’antisemitismo occidentale, che quindi gode di un’”ottima salute” già di suo. “Quando noi canadesi abbiamo votato all’Assemblea generale delle Nazioni unite a favore della soluzione di dividere la terra in due stati, lo abbiamo fatto per due motivi: perché eravamo dispiaciuti per quanto avevano subito con lo sterminio nazista e per evitare che emigrassero in casa nostra”, afferma Peter, pensionato amico di Mohamed e a sua volta organizzatore di tour di canadesi per sensibilizzarli sul conflitto.
Non può sorprendere dunque che gli ebrei, perseguitati ininterrottamente dal 70 dopo Cristo fino al culmine dell’Olocausto appena poche decine di anni fa, e odiati con forza da tanti ancora oggi, sentano urgente il bisogno di avere un luogo da chiamare casa dove sentirsi al sicuro. “Il problema secondo me non sono i due stati – chiosa Peter – Cioè possiamo anche farli: è una soluzione amministrativa come un’altra. Il problema è che Israeliani e Palestinesi devono avere stessi diritti e sicurezza in questa medesima terra”.
(Al seguente link intervista con Wisam Salsaa, General Manager del Walled Off)
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