La tragedia dell’Afghanistan ospitata per una sera a Varese

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8 Maggio 2018

Tutto esaurito al Cinema Teatro Nuovo di Varese per il debutto in scena dello spettacolo prodotto da Teatro Blu, Compagnia Anna Bonomi, Coopuf Teatro: “L’ultimo lenzuolo bianco”. Hanno curato la regia Silvia Priori e Roberto Gerboles. L’opera è un adattamento per il teatro di Roberta Colombo dell’omonima autobiografia di Farhad Bitani.

È bene innanzitutto spendere due parole proprio sul libro, un racconto intenso e affatto romanzato del quale la trasposizione teatrale è perfetto completamento, in quanto sopperisce allo scarso sviluppo degli episodi narrati dovuto alla scelta dell’autore di uno stile asciutto, per niente opulento, eppur pregno di una forza emotiva che coinvolge col coraggio della denuncia e la tragicità dell’esperienza trattata. Un testo importante, perché grande prova di testimonianza di una terribile situazione umana, e non me vogliano per il paragone, ma occorrerebbe a tutti di leggerlo e possederlo nelle proprie case come avviene per il Diario della Frank. E dopo averlo letto si dovrebbe venire a vedere questo spettacolo a cui riesce di incanalare tutta la forza sopita tra le pagine e a metterla in scena, e possiamo solo immaginare l’emozione provata dall’autore, presente tra il pubblico per questo debutto, nel vedere riprodotta sul palcoscenico la sua vita sconvolta da così molti strazianti avvenimenti.

In una breve sinossi possiamo dire che egli è figlio di un generale mujaheddin, spinto a diventarlo per uscire dalla prigione nella quale vi era costretto dai suoi futuri compagni. Sono gli anni che seguono l’occupazione russa in Afghanistan e una volta tornato a casa dalla moglie e dai figli, dei quali Farhad è il minore, questi stenta nel riconoscerlo e anzi ne ha timore; si nasconde impaurito per la trasformazione fisica che segue quella ideologica del padre, dopo aver coperto il volto con una barba lunghissima era diventato un fondamentalista. I mujaheddin sono i combattenti che “si impegnano per qualcosa di buono e giusto”, ma se la loro lotta poteva aver una collocazione durante l’occupazione britannica del 1800, a cavallo tra gli anni ’80-’90 essi si sono impegnati solo ad usare la loro influenza, la loro forza e le risorse proprie, o rimpolpate da qualche stato compiacente, per prostrare e segregare la popolazione afghana con il pretesto della religione. Un’interpretazione dell’Islam distorta all’occorrenza per opprimere con il timore di dio e della forza, mentre al riparo dei vetri oscurati delle loro auto blindate compivano le peggiori nefandezze e vivano senza nemmeno un briciolo di quella moralità assurda imposta agli altri. Dopo i mujaheddin, l’ingerenza estera sull’Afghanistan iniziò a finanziare i talebani, gli “studiosi del corano”, che forse riuscirono nell’impresa di stringere ancor di più il giogo integralista attorno al collo degli afghani. Con questo cambio di bandiera la vita di Bitani passò dall’agiatezza all’indigenza e poi ancora, dopo la perdita dei favori da parte dei talebani, per via del loro appoggio al terrorismo di Al-Qaida, i Mujaheddin tornarono in auge e trascorsa l’adolescenza al sicuro e nella ricchezza in Iran riuscì pure a frequentare l’accademia militare in Italia.

Ma del fondamentalismo islamico la stragrande maggioranza di noi ha sentito già parlare molto dalla semplificazione giornalistica, magari televisiva o da qualche interessamento della politica a scopo propagandistico. Riesce a questo spettacolo di far rivivere l’atmosfera di cosa significhi, per una vittima in qualche modo privilegiata di questo sistema, assistere ad un mondo impazzito. Farhad è interpretato da Fabrizio Cadonà che con capacità intimidisce la sua presenza scenica per rappresentare non solo l’infanzia o l’adolescenza di Bitani, ma anche l’essenza di un personaggio dicotomico, sempre in bilico tra la bontà e la saggezza materna di Clarissa Pari e l’empio fondamentalismo di Martino Iacchetti, a cui è destinato l’ingrato dovere di prestare la sua voce stentorea ad una coscienza quasi sempre maligna. Dunque Farahad è vittima e nella sua storia raggruppa tutta la popolazione che è ugualmente vittima in quanto plagiata dall’ideologia integralista, oppressa dalla propaganda, oppressa dalla violenza, ma spesso anche formata da agnelli che diventano lupi per convenienza più che per convinzione. Al riaccendersi delle luci in molti si sono compiaciuti delle musiche, ma io credo che più che il buon lavoro del curatore a colpire veramente sia stato il sollievo che il suono delle note dona nell’alternanza tra le pause dei quadri scenici e le atrocità ivi rappresentate. Quella stessa musica negata con furia integralista ad un popolo che in quella realtà infernale è immerso e costretto in una quotidianità senza tregua, noi invece la ringraziamo per la liberazione che ci garantisce dopo pochi istanti di finzione.

Nei più brutali passaggi tratti dal libro, invece, la musica media l’ovvia edulcorazione a cui è soggetto il copione e va a scandire la ferocia sia nello sgozzamento di un innocente passeggero di autobus, sia nella scena della lapidazione di una madre, che rea di un sospetto fedifrago, viene trucidata davanti alle figlie. Anche Farhad assiste ma non osa partecipare al supplizio: la figura statuaria avvolta nel Burka si erge in un silenzio immobile, potrebbe essere sua madre e in effetti l’attrice è la stessa (un particolare simbolico da non sottovalutare). Ricorda per certi versi l’imponenza scenica dello stupro in Arancia Meccanica, lì la musica accompagnava la violenza con fare canzonatorio, qua invece il ritmo è scandito da due sassi fatti sbattere tra loro per catalizzare il tremendo nel pubblico. Come avviene nel racconto della fanciulla rapita davanti agli impotenti genitori e violentata da uno sposo più vecchio dal padre, solo la morte a volte può dare scampo dalle proprie credenze e costrizioni; più spesso però la propaganda riesce a convincere al punto tale le persone che nessun altro mondo è possibile e l’abitudine al male prende piede. Gli insegnamenti coranici sono in arabo, la lingua del Profeta, che non è parlata in Afghanistan e viene appositamente mal tradotta in inopinabili precetti contro gli “infedeli”, poi inculcati fin da bambini con sorda ripetizione; così si crea un popolo disperato nella prigione della propria ignoranza; così si viene educati a non porsi domande, alla mancanza di pensiero critico.

Dubbi dovuti all’indottrinamento sugli infedeli e sul “vero” Islam, rimangono a Farhad anche quando grazie all’influenza del padre viene a vivere in Italia. È stranito dalla buona accoglienza che gli viene riservata dalla madre di un suo amico e anzi teme che voglia essere convertito. Ma alla fine il suo cuore che è già predisposto alla bontà più di altri suoi compagni d’avventure, si apre e premia il bambino che invece di giocare a pallone provava col suo cane le tecniche dei combattenti “nel nome di Dio” e che finalmente può segnare un goal e divertirsi come ogni suo coetaneo occidentale si è abituato a fare in gioventù.

Oltre alla potente testimonianza, il libro e dunque lo spettacolo ci suggeriscono due importanti spunti di ragionamento. Possiamo riflettere innanzitutto quanto diamo per scontato l’importanza della nostra cultura che nei secoli della sua formazione è stata sì piena di contraddizioni e si è mantenuta tutt’altro che illibata, ma che dalla nascita della Repubblica è riuscita a mantenersi libera e a possedere una sua moralità costituzionale. Per questo dobbiamo impegnarci a difendere il privilegio della nostra libertà, che ci ha permesso di far riscoprire il valore della bontà a una persona traviata da un mondo terribile, e che per questo ha più volte ringraziato l’Italia nella breve presentazione prima dello spettacolo. Il secondo motivo di importanza è proprio quanto questo spirito di accoglienza sia stato decisivo nel permettere a Farhad di scegliere una vita complicata per la pace del suo Paese, invece di contribuire allo sfruttamento dei suoi connazionali con il potere ereditato dai privilegi paterni. Anche noi siamo spesso vittime della propaganda ed è a volte complicato avere un’idea precisa della condizione umana delle persone che cercano speranza in Italia o anche più semplicemente della religione islamica, e duole dirlo ma anche nella recente politica si è spesso sfruttato il disprezzo per il diverso per accaparrare consenso. Stiamo attenti ad ingannarci perché quella è la stessa tecnica di odio verso l’infedele e di chiusura mentale usata dai fondamentalisti in quelle terre nel centro dell’Asia.

La conclusione la suggerisce, nella sua semplicità, la scenografia; sul palco sono appesi dei lenzuoli bianchi, come panni stesi, immobili nell’attesa di essere asciugati del vento di Kabul. Il vento del cambiamento più volte auspicato in scena; un cambiamento possibile perché è stato possibile per Bitani.  <<C’è un puntino bianco anche nel cuore più oscuro>> è la frase che si era sentito ripetere dalla madre, lui figlio del più corrotto dei poteri è riuscito a schiarire il suo cuore; il suo lenzuolo ora è bianco ed è appeso in attesa che il soffio della libertà lo gonfi e, come una vela fa con la sua barca, sospinga l’Afghanistan verso la democrazia.

 

Lo spettacolo verrà replicato il 9 Giugno presso Villa Menotti a Cadegliano-Viconago per il Festival Terre e Laghi

TAG: afghanistan, culture e religioni, estremismo islamico, Farhad Bitani
CAT: Medio Oriente, Teatro

Un commento

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  1. babaorum 6 anni fa

    Teatro pieno a Varese per uno spettacolo che non ti aspetti. Come scritto nella recensione, è spesso crudele, brutale , proprio perché questa è la realtà di quei luoghi di quelle popolazioni. Eppure, come sottolinea Stangalini, ci potrà essere un cambiamento nel futuro. Quando si esce dal teatro si vorrebbe anche noi mettere dei lenzuoli bianchi ad asciugare nel “vento del cambiamento”.

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