Un romano a Marte

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24 Novembre 2019

A quel che sembra, lo spettacolo nasce dalla collaborazione di tutti coloro che l’hanno portato sulla scena: chi ha scritto il testo, chi ha composto la musica, chi tiene insieme le fila della partitura per l’esecuzione, chi ha immaginato la drammaturgia con cui rendere visibile a tutti l’idea del lavoro. In altre parole: il librettista, Giuliano Compagno; il compositore, Vittorio Montalti; il direttore e concertatore, John Axelrod; il regista, Fabio Cherstich. Fantasiosi, indispensabili, le scene, i costumi e soprattutto i vertiginosi video di Gianluigi Toccafondo. Si vede, eccome se si vede, l’accordo. Non so in realtà, a dire il vero, con quanto accordo, con quanta discussione si sia arrivati al risultato finale, ma l’effetto sullo spettatore è di una straordinaria omogeneità, di una lodevole coerenza, visiva e teatrale. Tutto sembra stare dove e come deve stare.


Un marziano a Roma fu un’idea teatrale di Ennio Flaiano, messa in scena nel 1960 al Lirico di Milano da Vittorio Gassman e Ilaria Occhini. E fu un insuccesso clamoroso. Ma la commedia a sua volta nasceva da un racconto del 1954, poi raccolto, insieme ad altri scritti, nel volume Diario Notturno. Non sarà mai possibile sopravvalutare l’importanza di Flaiano nella cultura italiana dell’epoca del cosiddetto boom. Si pensi solo che le sceneggiature di film come La dolce Vita, 8 e1/2, La Notte, portano la sua firma. Dalla sera di quella prima, che fu appunto un fiasco, partono Giuliano Compagno, scrittore del libretto, e Vittorio Montalti, compositore della musica, per questo Un romano a Marte. Ma sarebbe riduttivo immaginare che l’opera (in tutti i sensi, melodramma, opera buffa, commedia per musica) sia speculare al racconto e alla commedia di Flaiano. Lo è solo nel titolo. Che, preso così alla lettera, sarebbe pure sbagliato, perché Marte non è una città ma un pianeta, e dunque sarebbe stato più corretto Un romano su Marte, ma si sarebbe perso il senso speculare con il racconto e la commedia, e inoltre il Marte del titolo non è il pianeta ma un luogo immaginario. Non è il solo “non-sense” del testo. I giochi linguistici, la segmentazione delle parole, anzi, si sprecano, e sono i benvenuti, perché poi ad essi corrisponde una speculare, questa sì, frammentazione del tessuto musicale. E lo stesso impianto drammaturgico non è costruito su una successione ordinata di eventi, ma per accostamento di scene, che si succedono per analogia o per contrasto.


L’effetto è quello di un collage di cui s’intravede la logica, senza riuscire tuttavia a individuarla. I personaggi tranne il marziano – e a suo modo nemmeno quello, perché anche lui già personaggio della commedia di Flaiano – sono persone storiche: Flaiano stesso, Ilaria Occhini, la romana Caterina Martinelli, ammazzata nel 1944 dai nazisti, e alla fine compare, sia pure solo come voce, Tonino Guerra. Il titolo poi ha un sottotitolo tra parentesi: (Ennio e gli altri). Compare, all’inizio, una scena di teatro, un’inserviente che spazza (Caterina Martinelli, interpretata da Valeria Almerighi, presente sulla scena per tutto lo spettacolo, e l’avevamo già vista sbirciare il pubblico ficcando la testa nella fessura del sipario), in mezzo alla scena una sorta di barella con un corpo coperto da un lenzuolo, un morto? Dall’alto, tutto vestito di rosso, vistosamente albino, come lo era Gassmann a Milano, cala Kunt, il marziano. Solleva il lenzuolo, e si alza Ennio Flaiano. Sulla scena circola un esagitato critico (Franco Cordelli?) che non canta, ma parla, parla, spiega l’azione, i fatti, i personaggi, inarrestabile. Elegantissima, tra Elisabeth Taylor e Alida Valli, ma soprattutto sé stessa, nipote di Papini, viso abbagliante di 8 e ½, Ilaria Occhini.


Eh sì, sono quelli gli anni. Si girava Cleopatra, Liz Taylor, e si spettegolava del suo flirt, che flirt non era, con Richard Burton. E Roma, che allora credevamo provinciale, non lo era affatto. Lo è oggi, che si crede moderna, ma è litigata da mafiette, anche politiche, di seconda e terza categoria. Vuoi mettere un Andreotti, un Piccioni, un Fanfani, un Rumor, la banda della Magliana? Il caos allora era caos. Oggi è un perfino non troppo aggrovigliato pasticcio. Questo caos noi vediamo affaticarsi e poi capitolare sulla scena. Era comunque la Roma di Moravia e di Pasolini. Ma anche di Fellini e di Antonioni (L’Eclisse). Ma anche di Fantasmi a Roma, di Pietrangeli e dei Soliti ignoti, di Monicelli.

La musica di Montalti asseconda il collage accostando varie tipologie di teatro musicale, in cui include anche il teatro parlato (il critico, che parla, non canta). Afferma di avere giocato con la parola “opera”, considerandola non il singolare femminile di opera/operae, ma il plurale neutro di opus/operis. E ci sta. Afferma che l’idea gli fu suggerita da Berio. Ma è un’idea che funziona. L’opera, il melodramma, è sempre stato un genere composito, renitente a tutti i tentativi di riforma omologante in un genere compatto e uniforme. Già il fatto che la parola si canti invece di essere detta, la rende bifronte. Poi, agli strumenti si aggiunge anche l’elaborazione elettronica. E perché no? Fin dalle sue origini il melodramma ha assorbito tutti i generi di musica.


Da questo complesso, ma intrigante, coacervo di forme, di sollecitazioni insieme verbali e musicali, nasce uno spettacolo di straordinaria continuità e coerenza. Ma si badi: continuità di senso, non di azione. E gli interpreti ce la mettono tutta a renderlo vivace, attraente. I tre cantanti, Rafaela Albuquerque, Domingo Pellicola e Timofei Baranov, rispettivamente nelle parti di Ilaria Occhini, Ennio Flaiano e Kunt, il marziano, provengono tutti e tre dal progetto “Fabrica”, una scuola di formazione di cantanti attori promossa dal teatro dell’Opera di Roma, che ha per sigla Young Artist Program. Il pubblico, foltissimo, della prima decreta per tutti un caloroso successo.

Ma a questo punto sorge spontanea una domanda: uno spettacolo così nuovo e così stimolante, perché proporlo solo per tre sere? E perché non portarlo in giro anche in altri teatri? Un tempo i teatri producevano solo opere contemporanee. Se proprio non si vuole tornare a quel felice periodo perché però mortificare le nuove opere con una così scarsa presenza nel teatro di produzione e nessuna diffusione in altri teatri?

TEATRO DELL’OPERA DI ROMA. Teatro Nazionale

Un romano a Marte

Opera per attore, voce recitante, tre cantanti, orchestra ed elettronica

Libretto du Giuliano Compagno

Musica di Vittorio Montalti

Opera vincitrice del premio di composizione del Teatro dell’Opera di Roma

Direttore John Axelrod

Regia Fabio Cherstich

Scene, costumi e video Gianluigi Toccafondo

Luci Camilla Piccioni

Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma

Ilaria Occhini Rafaela Albuquerque*

Ennio Flaiano Domingo Pellicola*

Kunt il Marziano Timofei Baranov*

Un Critico Gabriele Portoghese

Caterina Martinelli Valeria Almerighi

Mimi attori Martha Festa

Jacopo Spampanato

Prima rappresentazione: 22 novembre 2019

Repliche: 23. 24 novembre 2019

*dal progetto “Fabrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera

TAG: Musica
CAT: Musica classica

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