C’è stato un tempo in cui l’uscita di un disco era un evento memorabile. Nulla di paragonabile alle file di chi attende il nuovo iPhone trascorrendo la nottata in un sacco a pelo, ma fino a poco tempo fa quando capitava che, per errore, la grande distribuzione mettesse in vetrina il giorno prima della data prevista il nuovo album della pop star di turno succedeva un putiferio, con tanto di passaparola che portava i fan ad accaparrarsi l’uscita anzitempo. Pure nel caso di artisti impossibilitati a innescare isterismi di massa il rituale era preciso: si leggeva dell’imminente uscita sulla rivista specializzata di riferimento, ci si recava al negozio di dischi di fiducia e si prenotava la propria copia. Oppure, storia assai più recente, sui siti di vendita online si preacquistava il titolo desiderato con un anticipo variabile e spesso con un significativo sconto.
Oggi le cose sono cambiate, in maniera anche piuttosto drastica. Due casi recenti ci sembrano particolarmente significativi in tal senso. Poco prima dello scorso Natale, senza alcun preavviso, D’Angelo, fuoriclasse della black music assente dalle scene con un disco addirittura dal 2000, anno di uscita del capolavoro “Vodoo”, stimolato a quanto pare dai tragici eventi a sfondo razziale che recentemente hanno infiammato gli Stati Uniti, ha deciso di diffondere digitalmente “Black Messiah” su iTunes e in streaming su Spotify di punto in bianco, senza alcun preavviso se non una seduta d’ascolto, destinata al pubblico della Red Bull Music Academy di New York, prevista per il giorno prima. Una scelta curiosa, visto che a metà dicembre la stampa specializzata ha già stilato le playlist con le migliori uscite dell’anno. Ma l’attesa per quel disco, a lungo annunciato e mai materializzatosi, era ormai divenuta proverbiale, e infatti l’evento inatteso ha fatto parecchio rumore: nei giorni immediatamente successivi qualunque appassionato di musica dotato di una connessione Internet ne ha letto da qualche parte. Possibile pure che l’improvviso ritorno abbia regalato a D’Angelo una visibilità addirittura maggiore di quella che avrebbe avuto in un altro contesto. Al di là delle strategie o dell’assenza delle stesse, però, è proprio il meccanismo dell’interesse alimentato dall’attesa a non funzionare più. Tanto vale agire di conseguenza, anche se magari se la decisione l’hanno presa altri, nostro malgrado.
E a tal proposito veniamo al secondo caso. La scorsa settimana il nuovo album di Björk, “Vulnicure”, previsto per marzo, è stato messo in rete illegalmente anzitempo, un incidente di percorso ormai comune nell’epoca della musica liquida, anche se quasi mai con ben due mesi di anticipo: l’artista islandese ha deciso quindi di anticipare l’uscita del disco di comune accordo con la propria etichetta, la One Little Indian. Una decisione presa obtorto collo, con tanto di strategie promozionali saltate e accordi di distribuzione da ricalibrare. A differenza di quanto ha fatto Madonna, il cui album previsto per il 2015 e intitolato “Iconic” è stato diffuso online un paio di mesi fa in una versione non ancora definitiva, alla One Little Indian hanno deciso di non procedere per vie legali nei confronti del responsabile della fuga di file.
Si tratta di un fenomeno inedito, o comunque di uno spostamento in avanti dell’asticella: l’improvvisa e non annunciata pubblicazione di nuova musica da parte dell’artista non è più legata esclusivamente alla scelta di renderla disponibile bypassando i rodati meccanismi della discografia tradizionale e della promozione mediatica, magari cercando di mettere in pratica un lungamente teorizzato aspetto di dialogo non mediato tra artista e pubblico (i primi a muoversi in tal senso sono stati i Radiohead nel 2007 con il loro “In Rainbows”, pubblicato direttamente sul sito della band lasciando all’acquirente la possibilità di fare una offerta libera per l’immediato ascolto della versione digitale, e la possibilità di accaparrarsi una edizione “deluxe” in un secondo momento), ma sembra essersi ormai arresa ai meccanismi di “autoriduzione” manifestatisi spontaneamente in Rete in questi anni: la musica è di tutti, decidiamo noi come e quando “liberarla” e pazienza se chi l’ha prodotta non ne ricaverà più una lira o quasi.
Negli ultimi anni sono stati in molti, vuoi per attriti e strappi con la casa discografica, vuoi per un ritrovato desiderio di indipendenza (spesso agevolato da una visibilità mediatica pregressa: impensabile l’operazione “In Rainbows” per un gruppo semisconosciuto) a far uscire la loro musica con minimo o nullo preavviso: My Blody Valentine, Beyoncé, Azlea Banks, Four Tet, solo per fare alcuni nomi. Tutti quanti desiderosi di misurarsi con le nuove modalità di fruizione della musica. Magari felici di poter riservare una maggiore attenzione ai fan più affezionati, disposti a sborsare denaro per una versione iper-fisica e collezionabile della loro musica.
L’impressione è tuttavia che gli artisti, in un’ottica di impatto sull’immaginario collettivo, si siano infine rassegnati alla scomparsa del disco inteso come unità di significato musicale (e culturale), all’interno di un contesto in cui (Simon Reynolds ha trattato brillantemente il tema nel saggio “Retromania”) la percezione del futuro è scomparsa e la musica, di tutte le epoche e di tutte le latitudini, è immediatamente raggiungibile con un click. Il rischio, di fronte alla comparsa di infinite possibilità, è quello di impasse.
Il controverso caso dell’ultimo album degli U2, “regalato” da Apple a tutti i suoi utenti, che se lo sono trovati – alcuni loro malgrado – su iTunes, è indicativo anch’esso di questa svalutazione. La musica è dappertutto, immediatamente raggiungibile, e allo stesso tempo non vale più nulla. E non solo dal punto di vista economico.
C’è chi rema in direzione contraria, è vero, ma si tratta pur sempre di correnti minoritarie: la crescita del vinile negli ultimi anni è impressionante, però parliamo di un formato a lungo scomparso, il quale, pur in crescita, fa numeri ancora risibili, mentre i fan affezionati disposti a sborsare soldi per sontuosi cofanetti difficilmente riusciranno ad arricchire i loro artisti preferiti, o almeno non tutti; probabilmente solo quelli con un seguito consistente.
Artisti che a quel punto non possono che cercare nuove vie, consapevoli che il ritorno a scenari pre-discografici, visti anche i numeri di vendita della musica nel suo formato fisico, ormai a picco (con i formati digitali che non stanno facendo esattamente dei gran numeri), è allo stato attuale inevitabile. E allora ecco che sorgono servizi come Spotify, il quale consente un accesso quasi illimitato allo scibile musicale, in streaming, in cambio di un canone mensile. Unico problema: le ripartizioni degli introiti e le percentuali di guadagno al momento risibili per gli artisti. Clamoroso ad esempio il caso di Pharrel Williams, che dai passaggi sulla radio online Pandora dell’onnipresente singolo “Happy”, usufruiti da quarantatrè milioni di utenti, ha ricavato appena 2.700 dollari. Oppure il “crowdfunding”, pratica che, assicurando a chi partecipa alle spese di realizzazione di un disco privilegi e anteprime, è in qualche modo assimilabile, pur con le dovute differenze, al mecenatismo. O, per qualcuno, addirittura alla questua vera e propria.
La musica troverà il modo di sopravvivere, e probabilmente gli artisti si inventeranno nuove modalità mercantili, come è accaduto prima della nascita dell’industria discografica, circa un secolo fa, ma nessuno si chiederà più quando uscirà un disco. Al limite si potrà constatare l’immissione di nuova musica in un flusso oceanico che annulla le distanze – temporali e geografiche – e nel quale è sempre più difficile orientarsi, dove l’atomizzazione di un fenomeno culturale un tempo trasversale, generazionale e in grado di creare uno spirito di identificazione fortissimo è un dato di fatto. Non valutabile in termini necessariamente nostalgici, sia chiaro, e senza concentrarsi a tutti i costi sugli aspetti negativi. Anzi, probabilmente questa situazione darà vita a nuove forme di creatività. Ma la sfida è ormai lanciata, e il suo esito al momento difficile da valutare.
Foto di copertina, “Stuff as such”, di Federico Pelloni, tratta da Flickr
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