Il suicidio nel rock contemporaneo, tragico e non più lezioso
Non ho mai amato il Grunge. Musicalmente non esiste, è una variante affettata del garage rock, e se la ascoltate bene, è a metà strada tra Ted Nugent ed i New Riders of the Purple Sage. Gaber diceva che in ogni film americano, persino nella fantascienza, ci fossero i cowboys, e che la musica, sotto sotto, fosse più legata alla tradizione western che al blues. Badate bene: in questo modo sto cercando di nobilitare i brani di gente che, avendo imparato le armonie complesse della tradizione britannica, decide di usarle per strillare come un Chuck Norris metallaro. Per formazione, diffido di coloro che giocano a fare gli incapaci per poter affermare di essere veri e spontanei. Generalmente sono musicisti in gamba che, per difetto di carattere, preferiscono essere i Guns & Roses dei mentecatti, i Queen dei falliti.
In questo modo, Grunge non è uno stile musicale, ma solo uno stile di vita, che è all’opposto di come ho vissuto io, ed è una sorta di sublimazione catatonica della pigrizia intellettuale, come sfotte Beck in “Loser”. Il Grunge è apatico, si pregia di considerare con una sorta di snobismo rovesciato coloro che si battono, che sono tormentati ma appassionati, entusiasti, ambiziosi, denigra l’impegno come noioso, e lentamente giunge alla conclusione che l’unica cosa da fare sia morire al più presto possibile. Kurt Cobain dei Nirvana si è sparato a 27 anni, Layne Staley degli Alice in Chains, Andrew Wood dei Mother Love Bone e Scott Weiland degli Stone Temple Pilots sono morti giovanissimi per overdose (Wood aveva solo 24 anni…).
So di essere spietato, ma a mio parere questi ragazzini sono inutilmente morti nell’illusione di ripetere la grande generazione bruciata di Jim Morrison, Janis Joplin, Gram Parsons, Brian Jones e tanti altri eroi degli anni 60, caduti per droga durante la grande estate in cui ci si illuse di poter cambiare tutto. I primi credevano in un mondo migliore, gli ultimi credevano solo nell’affettazione della sconfitta, nel mito infantile del “se vogliono davvero sapere chi sono che si diano pena per scoprirmi, altrimenti affanculo tutto”. Gente che non ha mai superato la fase anale e che probabilmente ha vissuto le scuole elementari come una sfida intellettuale impossibile da sopravvivere, figli di un lusso alienato che, nel tentativo di proteggere i bimbi da qualsivoglia esperienza negativa, ha celebrato la pigrizia come valore massimo dell’umanità. Bambocci, che credono (come si fa a due anni) di meritare attenzione a prescindere da tutto, e che quindi sfasciano tutto, aspettando una mamma che, invece, è occupata a fare altro. Magari a vivere la propria, di vita.
Le morti di Chris Cornell e Chester Bennington, invece, escono da questo schema. Considerare questi due artisti come gli ultimi scampati del Grunge che, alla fine, cadono insieme agli altri angeli ribelli, è un insulto. Si tratta di due decisioni strazianti di due artisti che stavano con entrambi i piedi nella realtà, che sapevano benissimo di essere ciò che erano: uomini con un destino speciale, ma uomini, non fantocci di una moda metropolitana. Di Cornell ho già scritto: la sua qualità tecnica gli ha permesso di andare ben al di là dei canoni della musica che faceva da ragazzo, si era evoluto. I Linkin Park non mi sono mai piaciuti, ma questo non intacca minimamente la loro importanza, io sono solo uno che ascolta musica, ed ho un mio gusto personale e discutibilissimo.
Quando un uomo (o una donna) si ammazza, non si ammazza “l’artista”, ma la persona, se si è adulti. Si uccide una persona che ci ha pensato su, che ritiene il proprio ciclo vitale concluso, oppure che si trova in una situazione tale da non vedere vie d’uscita. Probabilmente non avete letto Emile Durkheim, e quindi riassumo in modo semplicistico il suo pensiero: si uccide chi vive senza rete, senza valori, senza senso di appartenenza ad un’altra persona, ad una famiglia, ad un clan, ad una società. Partendo dall’analisi di un numero enorme di dati statistici, Durkheim sosteneva che fosse la mancanza di valori condivisi da una collettività (come quelli etici e religiosi) che determina una perdita di stabilità o “anomia” idonea a provocare nei singoli individui sentimenti d’angoscia e d’insoddisfazione soffocati dal suicidio. In ognuno di noi convivono due forze contrapposte: voler essere unico e voler essere uguale agli altri. Ma se gli altri sono indefinibili, entrambe queste spinte rimangono impossibili.
Tra il 2011 ed il 2016, nell’Occidente “ricco”, si ammazzano 160mila persone all’anno, divise più o meno a metà tra ragazzine o ragazzini da un lato, e cinquantenni dall’altro. Quindi almeno 80mila adulti, o presunti tali. Non persone che non sapevano cos’altro fare, ma persone che (quasi tutte) avevano a sufficienza da mangiare e da vestirsi, avevano avuto una vita “normale”, e, fino a quel momento, avevano funzionato, come tutti noi. Ma la cui percezione di sé stessi, persino nel caso di rockstars, era di essere senza senso. Per questo considero questi due musicisti con un rispetto che non ho mai tributato alle vittime del Grunge.
Da questo punto in poi esprimo un mio personalissimo ed esclusivo parere. La “società”, come filtrata e manipolata dai media, insegna che il successo si ottenga specialmente grazie alla furbizia: bisogna vivere seminascosti, senza mai affermare ciò che si vuole veramente, intrigando, mentendo, elemosinando, essendo servili, senza passioni ufficiali, vantando dolori infantili mai superati come stimmate di guerra insanabili, ma esponendo solo hobbies finti ed affettati, senza essere sicuri di volere (a parte il sesso), sentendosi così costretti a gioire per successi (considerati tali dai media) che ci cadono addosso per caso, dato che “chi non fa non falla” e che fallire tentando è considerato un peccato mortale. Meglio il nulla che sbagliare. E per il resto raccontare quanto tutto sia difficile, impossibile, terribile. Condannandosi così ad una giusta solitudine, stemperata solo da una sessualità che sostituisce tutto il resto. Mi piace molto il sesso, ma mi annoia chi si afferma attraverso di esso, o sceglie chi avere intorno in base a questo. Eravamo più liberi quando erano le famiglie a sposarci con sconosciuti, che in questo casino di trombate tra millantatori e millantatrici, il cui unico accordo è cercare di perdonare l’altro, che comunque è una delusione, perché mente sempre.
Poi, dopo i 50 anni, si viene catapultati fuori da questo incubo, e ci si trova costretti a misurarsi con sé stessi. Come hanno fatto, presumo, Chris Cornell e Chester Bannington. Non ce l’hanno fatta, e ciò mi addolora. Perché gli adulti, al mondo, sono talmente pochi. Avremmo avuto bisogno dei loro nuovi lavori, più coraggiosi, da chi, disilluso, avesse avuto la forza di capire quale strada si potesse percorrere. Ma forse si sentivano costretti a ripetere all’infinito ciò che avevano fatto, pena l’esclusione dal circo. Dopo i 50 anni si sceglie: o essere i Queen, o David Bowie. In mezzo c’è solo Pupo.
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